Quanto ci costa la violenza economica sulle donne nel 2025? Il male subdolo che impoverisce l’Italia

Solo la metà delle donne ha un conto corrente personale. Mentre si discute della mancanza di fondi adeguati per ampliare le misure della manovra 2026, si rinuncia a un aumento esponenziale del PIL.

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Le piazze italiane si organizzano per accogliere i/le manifestanti in occasione della Giornata per l’eliminazione della violenza contro le donne del 25 novembre. E mentre i riflettori sono puntati sulle aggressioni fisiche e sui femminicidi, si rischia di tenere nell’ombra una delle forme di violenza più pericolose: la violenza economica sulle donne, che non solo impedisce la fuoriuscita dalle relazioni violente e la buona crescita dei figli, ma sottrae ricchezza all’Italia intera. La Finanziaria 2026 sarebbe stata più “ricca” se l’eliminazione della violenza economica di genere fosse stata una priorità.

Violenza sulle donne in Italia nel 2025: oltre 6,4 milioni di vittime

Secondo gli ultimi dati Istat, sarebbero 6 milioni e 400 mila le donne italiane tra i 16 e i 75 anni di età che hanno subìto una violenza fisica o sessuale nel corso della vita. Significa più di tre su dieci. Il dato è ampiamente sottostimato, trattandosi soltanto di ciò che è emerso dalle interviste e non facendo menzione del sommerso. Non è una novità che gli autori delle violenze siano per lo più i partener e gli ex partner. Ma dovrebbe preoccuparci soprattutto il fatto che – nonostante la maggiore consapevolezza delle vittime – il trend del fenomeno risulti stabile. A essere colpite sono tutt’altro che donne “fragili”: si tratta soprattutto di dirigenti, imprenditrici, professioniste, studentesse.

25 novembre, la violenza economica è (ancora) socialmente accettata

Che la donna debba occuparsi di faccende domestiche e cura dei figli, lasciando all’uomo il compito di “portare i soldi a casa” è ancora socialmente accettato. Quasi nessuno salterebbe dalla sedia nel sentire un racconto simile e, probabilmente, nessun assistente sociale interverrebbe, contrariamente a quanto accadrebbe se si decidesse di vivere in un bosco.

Come si legge nel report dell’Istat, “l’indipendenza economica rappresenta un elemento chiave della libertà e dell’autonomia delle donne all’interno della coppia. Tuttavia, il 13,6% di quelle che vivono con un partner dichiara di non considerarsi economicamente indipendente. Tra queste, la vulnerabilità risulta particolarmente elevata: il 24,3% non partecipa alle decisioni economiche familiari e il 42,4% riferisce di subire forme di violenza economica, a conferma del legame stretto tra dipendenza finanziaria e controllo o limitazioni esercitati dal partner. Tra le donne che subiscono violenza economica, oltre la metà (53,6%) non dispone di un reddito personale e vive grazie al mantenimento da parte di familiari conviventi, una condizione che accentua la dipendenza e riduce ulteriormente le possibilità di autonomia e uscita dalla violenza”.

Il conto corrente personale? Un miraggio

In fondo, soltanto cinquant’anni fa – con la riforma del diritto di famiglia – le donne hanno conquistato il diritto di intestarsi un conto in banca senza il consenso del marito e del padre. E oggi, poco più della metà ha un conto personale. Solo nel 2025 la Corte di Cassazione ha stabilito che la violenza economica possa essere integrata nel reato di maltrattamenti in famiglia, riconoscendo che impedire a una persona di lavorare, controllarne ogni spesa o negarle l’accesso alle risorse familiari sono condotte che minano la dignità e l’autonomia individuale. La Convenzione di Istanbul del 2011 ha obbligato gli Stati ad adottare politiche integrate di prevenzione, ma gli strumenti di tutela rimangono spesso frammentati e inadeguati.

Il costo economico della disuguaglianza di genere in Italia

Da mesi si discute ormai della manovra 2026, di quanto le risorse messe a disposizione siano insufficienti a far cresce il Paese. Una critica mossa da più parti, come Confindustria e diverse sigle sindacali che scendono – e scenderanno ancora – in piazza per questa ragione. Ma, allora, è paradossale che la discussione non tocchi mai l’opportunità inespressa delle donne in Italia.

Secondo la Fondazione Nord Est, le regioni del Nord Italia perdono complessivamente circa 177 miliardi di euro di PIL ogni anno a causa della disuguaglianza di genere in termini di occupazione, orario di lavoro e retribuzione. L’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere stima che se il tasso di occupazione femminile raggiungesse quello maschile entro il 2050, il PIL italiano potrebbe crescere del 12%, con un aumento potenziale tra i 260 e i 600 miliardi di euro. Stime simili si osservano a livello europeo: secondo il World economic forum, aumentare la partecipazione femminile potrebbe generare fino a 10,5 milioni di nuovi posti di lavoro in Europa entro il 2050, con un incremento del PIL del 9,6%.

Italia Paese che spreca talenti

Nel 2024 il tasso di occupazione femminile tra i 25 e i 64 anni in Italia si è fermato al 56,1%, contro una media europea del 68,3%. Così si conferma il Paese che fa peggio in Europa in termini di occupazione femminile. Il gap tra uomini e donne è di oltre 17 punti percentuali. E poi c’è il gap salariale: le donne guadagnano in media il 57,2% del salario dell’altro sesso.

Quasi una donna su due in età lavorativa in Italia non lavora, né cerca lavoro. Lavora già in casa, in famiglia, senza percepire alcunché. Il Paese perde così competitività, innovazione, ricchezza, possibilità di migliorare l’indice di natalità e coesione sociale. Eppure le italiane mostrano la maggiore capacità di resilienza in Europa, visto che con determinazione continuano ad aprire partita IVA e, nel tentativo di farcela nonostante gli ostacoli oggettivi, registrando il record.

Le misure che servono contro la violenza economica sulle donne

Il 25 novembre non può essere solo un giorno di commemorazione. Deve rappresentare, piuttosto, un’analisi degli obiettivi e delle azioni da compiere per cambiare concretamente i dati e assicurare la parità di genere.

Oggi bisogna riconoscere che investire sull’autonomia economica delle donne significa:

  • garantire accesso universale a conti correnti personali e strumenti finanziari;
  • promuovere l’alfabetizzazione finanziaria già nelle scuole, senza stereotipi di genere;
  • inserire a scuola l’educazione sessuale e affettiva, per educare le future generazioni a un approccio rispettoso nei confronti dell’altro nelle relazioni;
  • applicare realmente la parità salariale, con sanzioni pesanti per chi discrimina;
  • creare nuovi servizi di cura accessibili per liberare le donne dal doppio carico, con attenzione particolare per le partite IVA;
  • riconoscere la violenza economica come reato specifico nel codice penale;
  • sostenere l’imprenditoria femminile con accesso al credito facilitato (e su questa linea si muovono già diversi bandi e iniziative di istituti di credito);
  • educare uomini e donne a una gestione paritaria delle risorse familiari.

Perché contrastare ogni forma di violenza, anche quella più subdola, garantire pari opportunità nel lavoro e nella vita non è soltanto giusto, è economicamente necessario

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Ivana Zimbone

Direttrice responsabile

Direttrice responsabile di Partitaiva.it e della rivista filosofica "Vita Pensata". Giornalista pubblicista, SEO copywriter e consulente di comunicazione, mi sono laureata in Filosofia - con una tesi sul panorama dell'informazione nell'era digitale - e in Filologia moderna. Ho cominciato a muovere i primi passi nel giornalismo nel 2018, lavorando per la carta stampata e l'online. Mi occupo principalmente di inchieste e approfondimenti di economia, impresa, temi sociali e condizione femminile. Nel 2024 ho aperto un blog dedicato alla comunicazione e alle professioni digitali.

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