Da commercialista che si occupa quotidianamente di fiscalità digitale, sono rimasto molto colpito dal recente giro di vite adottato dalla Cina per regolamentare il settore degli influencer e dei content creator. Le nuove norme non solo puntano a tracciare i guadagni online, ma anche sulla qualità dei contenuti e sulla verifica delle competenze dei content creator che, fino ad oggi, avevano potuto presentare qualsiasi tipo di argomento ai propri followers, senza che vi fosse una reale validazione delle informazioni proposte sui social.
Per certi versi si tratta di una svolta epocale, di grande trasparenza e di tutela dei consumatori e del mercato. Il fatto che sia stata la Cina ad adottarla induce a più di qualche riflessione sui tempi di adeguamento dell’Occidente e sulla difficoltà, spesso, a fare la cosa giusta in un tempo ragionevole. In un mondo che corre alla velocità della luce, la rapidità della regolamentazione, rispetto all’evoluzione della società, è fondamentale, per garantire a tutti i cittadini alcuni diritti inalienabili come quello all’informazione ed alla conoscenza.
Indice
Il nuovo modello cinese per influencer e content creator
La Cina è riuscita a fare sintesi tra controllo, tutela dell’ordine digitale e fiscalità. Adesso ogni piattaforma (anche estera, elemento che deve ulteriormente farci riflettere) che permette di monetizzare online deve inviare report trimestrali dei guadagni degli utenti, identificare ogni beneficiario e segnalare qualsiasi sponsor, partnership, regalo digitale o vendita in live streaming come fonte imponibile. Ogni creator, streamer o opinion leader è soggetto a tassazione progressiva fino al 45% per gli scaglioni più elevati, e la tolleranza verso le cosiddette “zone grigie” si è definitivamente chiusa con pesanti sanzioni e controlli incrociati.
La vera innovazione arriva da un decreto di ottobre 2025, che collega la possibilità di discutere temi specialistici, come salute, diritto, fiscalità e finanza, all’obbligo di possedere titoli certificati o una laurea riconosciuta. Le piattaforme social, in Cina, sono ora chiamate a un ruolo di validatore vero e proprio. Devono verificare le competenze dei creator e sospendere gli account di chi diffonde contenuti tecnici senza abilitazione.
La situazione in Italia
Se dovessi immaginare un sistema uguale in Italia, sarebbe tutto molto più complicato (come è nella natura degli italiani), e si dovrebbe regolamentare un settore in cui tutti parlano di tutto. Se per un attimo ci fermiamo ad analizzare con attenzione i contenuti dei social in Italia, potremo facilmente verificare che la maggior parte dei contenuti in tema di diritto, finanza e salute sono promossi da creator che non hanno alcun titolo.
Anche sul titolo necessario ci sarebbe molto da lavorare. Per capire quale potrebbe essere il criterio da adottare. Ad esempio di fiscalità potrebbero parlare solo i commercialisti e di salute solo i medici? Delineare un perimetro è veramente complicato, così come avere un quadro chiaro degli argomenti e come essi vengono individuati.
Fiscalità trasparente in Europa tra DAC7 e DAC8
In Europa, la regolamentazione fiscale per la creator economy si sta consolidando tramite la direttiva DAC7, che ha introdotto l’obbligo per le piattaforme digitali di reportare annualmente alle autorità fiscali i redditi generati dagli utenti, e con la futura DAC8 che mirerà a estendere questi controlli anche alle criptovalute. Dal punto di vista fiscale, la trasparenza digitalizzata è certamente aumentata, ma la tempistica resta diluita e meno pervasiva rispetto alla Cina. I dati vengono trasmessi una volta l’anno, con un sistema di soglie e di autodichiarazione che lascia ancora aree non del tutto presidiate.
Personalmente noto la difficoltà per molti influencer europei di comprendere i propri obblighi e la varietà di regimi fiscali fra i vari Stati membri (flat tax, forfait, microimpresa, IVA sui servizi, gestione separata INPS, ecc.) non aiuta a dare quella chiarezza che il sistema cinese sta invece imponendo in modo più schematico e rigido. In Italia, la novità del codice ATECO 73.11.03 è un passo avanti verso la riconoscibilità e la formalizzazione del lavoro digitale, ma siamo lontani da un monitoraggio sistematico dei contenuti pubblicati o delle competenze di chi li produce, per tutte le difficoltà accennate nel precedente paragrafo.
Come controllano i contenuti e i creator gli Stati Uniti?
Negli Stati Uniti la fiscalità digitale segue logiche rigorose di reporting personale e corporate, con IRS pronto a colpire le omissioni e la grande evasione. Da anni ogni pagamento da piattaforme come Patreon, YouTube, Twitch o TikTok va dichiarato nel Schedule C o come parte del reddito personale, con possibilità di controlli molto severi.
La rigorosità del sistema fiscale americano e l’inflessibilità delle sanzioni (che possono sfociare in modo relativamente facile nel penale) sono proverbiali e conosciute. Da questo punto di vista è sicuro che gli Stati Uniti non sono rimasti indietro rispetto alla Cina, nell’implementazione di sistemi di controllo della fiscalità digitale. Un ovvio motivo è l’avanzamento tecnologico delle aziende americane, ai vertici mondiali, che rendono più tempestivi gli adeguamenti regolamentari, per il verificarsi, anticipato rispetto al resto del mondo, dei casi concreti.
Tuttavia, non esiste alcun filtro sulle competenze. E questo passaggio dimostra ancor di più come la novità cinese sia veramente all’avanguardia. Negli States chiunque può avventurarsi nel settore dei content creator, con video, podcast o newsletter su temi delicati come diritto, investimenti o fiscalità, senza alcun controllo preventivo.
Questa “libertà” rischia di generare (e di fatto genera) una quantità crescente di contenuti fuorvianti o errati, difficili da arginare per il pubblico meno preparato. Sarebbe opportuno che i fruitori di contenuti avessero delle competenze minime per discernere i contenuti e i creator, analizzando e comprendendo quali sono le informazioni veramente utili e reali dalle fake. Ma temo che ci vorrà ancora molto tempo.
Influencer e competenze: il rischio di disinformazione
Da professionista mi capita spesso di vedere influencer che si cimentano in video o post su temi societari, fiscali, normativi senza alcuna preparazione o abilitazione, con il rischio concreto di diffondere errori e cattivi consigli. Capita a me ed altri professionisti di dover ‘riparare’ a danni, causati da suggerimenti errati oppure troppo semplificati, dati da chi non ha titoli per parlare di fisco, diritto o economia.
Il modello cinese, per quanto a tratti rigido e invasivo, porta in qualche modo ordine e responsabilità. È una misura che può apparire autoritaria, ma garantisce che la divulgazione sia fondata almeno su una base di competenza verificabile, tutelando chi si informa sul web da disinformazione potenzialmente pericolosa.
La Cina più veloce e trasparente di Europa e USA?
Guardando alla Cina, non si può non riconoscere che la rapidità nell’adeguamento normativo e la trasparenza nell’applicazione delle nuove regole fiscali digitali siano superiori rispetto all’Europa e agli Stati Uniti. Il sistema cinese abbina controllo fiscale, responsabilità sociale e trasparenza dei contenuti, anticipando le esigenze di tutela dell’utente e di equità fiscale che anche l’Occidente, a piccoli passi, sta cercando di realizzare.
Il futuro della fiscalità digitale dei creator sarà sempre più orientato alla trasparenza, all’automatismo dei controlli e alla responsabilità personale, sia nel dichiarare il reddito che nel divulgare contenuti di qualità. Ma pensiamo davvero che la stagione degli influencer esenti da tasse e senza competenze si sta davvero chiudendo in tutto il mondo?
Le prospettive future
Probabilmente ci vorranno ancora anni e ci sono molti paesi in cui le attività svolte da content creator e influencer non sono regolamentate da un punto di vista fiscale, ma la direzione è senz’altro questa. Per quanto riguarda il controllo delle competenze il principio è corretto, ma l’applicazione concreta nei Paesi occidentali resta molto complicata. La Cina è un Paese tutto sommato gestito da un potere centralizzato in cui l’esigenza di controllo dell’informazione ben si sposa con una disciplina rigida sulle competenze dei creator e sugli argomenti da trattare.
In Italia e negli altri Paesi occidentali, tracciare il perimetro degli argomenti “sensibili” sarebbe molto complesso. Da commercialista posso dire che non vi sono riserve di legge per la compilazione della dichiarazione dei redditi. Chiunque può fare una dichiarazione dei redditi e molti soggetti possono essere intermediari nell’intermediazione con il fisco. Se per alcune categorie professionali non si riesce ancora a definire il perimetro delle attività professionali consentite, come sarebbe mai possibile limitare gli argomenti e le competenze di chi può trattare questi argomenti sui social?










Giovanni Emmi
Dottore Commercialista