Il palco del Meeting di Rimini, organizzato dal movimento cattolico di Comunione e Liberazione, è sempre una grande occasione per la politica. Quest’anno lo è stato per la premier Giorgia Meloni, che tra le tante cose ha parlato dell’ormai noto “Piano casa“: un progetto più volte annunciato, di cui contorni e tempi non sono ancora una volta chiari, che promette abitazioni a prezzi calmierati per le giovani coppie. Perché, si sa, “senza una casa è molto più difficile costruire una famiglia”.
Senza dubbio un discorso efficace, sul piano simbolico. Mettere al centro la “famiglia” e la “natalità” rinvia sempre all’immagine di un governo vicino al ceto medio, sempre meno rappresentato, che si distanzia dall’assistenzialismo passato. Ma quanto di tutto ciò può dirsi concreto? Quanto, invece, la mossa è pensata per accontentare chi è stato escluso dai sussidi statali, pur lavorando o cercando lavoro?
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Piano casa, cosa prevede
Il piano annunciato prevede uno stanziamento di 660 milioni di euro. Cifre ridicole, perché le necessità reali stimate dall’ANCE ammontano a 15 miliardi. E le regole non esistono ancora. Il target ufficiale include nuclei familiari con redditi tra 30 mila e 60 mila euro. Tra i beneficiari principali le giovani coppie, a patto che siano sposate o conviventi da almeno due anni e che almeno uno dei due componenti non abbia superato i 36 anni di età; i nuclei familiari monogenitoriali con figli minori; le famiglie con tre o più figli con ISEE basso.
Eppure, col Fondo garanzia, c’è già l’opportunità di accendere un mutuo per la prima casa senza troppe difficoltà. E poi, se davvero si volesse garantire affitti a prezzi più bassi, si dovrebbe intanto abbassare le tasse che sono costretti a pagare i locatori. La mossa, però, non avrebbe lo stesso appeal dal punto di vista comunicativo.
Ciò che si sa del nuovo Piano, tra l’altro, è che dovrebbe seguire diverse linee strategiche: il recupero del patrimonio immobiliare esistente; nuove forme di social housing a canone calmierato; la manutenzione e la ristrutturazione di case popolari; snellimento burocratico; un tavolo che coinvolga pure Regioni ed enti locali; l’efficientamento energetico.
Il contesto abitativo reale in Italia
Secondo l’ANCE, in Italia ci sono oltre 10 milioni di famiglie con reddito inferiore a 24 mila euro annui che non riescono ad accedere a una casa adeguata. Questo vale soprattutto nelle grandi città, dove per pagare il mutuo o l’affitto bisogna spendere almeno la metà del proprio reddito.
Sarebbe anche lecito chiedersi, considerando una giovane coppia con un reddito lordo complessivo di 30 mila euro, dopo tasse, contributi previdenziali e spese correnti (cibo, trasporti, bollette, servizi e altre necessità) quanto rimarrebbe effettivamente disponibile per affrontare un mutuo, anche se agevolato. Una domanda retorica la cui risposta evidenzia la contraddizione tra slogan politici e realtà economica concreta.
L’illusione dei numeri del Piano casa
Il problema dei 660 milioni di euro stanziati non è solo la loro inadeguatezza rispetto ai bisogni reali, ma anche la loro distribuzione temporale. Si tratta infatti di fondi spalmati su diversi anni: 100 milioni dalla legge di Bilancio 2024 (50 nel 2027 e 50 nel 2028), più altri 560 milioni dalla manovra attuale distribuiti tra il 2028 e il 2030. In sostanza, la maggior parte delle risorse arriverà a fine mandato o oltre, quando probabilmente altri governi dovranno occuparsene.
Questa tempistica solleva interrogativi legittimi sulla reale volontà di affrontare l’emergenza abitativa nell’immediato. Come può un governo che promette case a prezzi calmierati rimandare la maggior parte degli investimenti al 2028-2030? E soprattutto, come può definire “piano” quello che al momento è poco più di un titolo in cerca di contenuti? Il ministro Salvini stesso ha definito i 660 milioni “un’inezia”, promettendo di mobilitare risorse private aggiuntive. Ma siamo di nuovo nel campo delle promesse: il decreto previsto dalla legge di Bilancio per definire i criteri del Piano doveva essere emanato entro il 30 giugno 2024, e ancora non si è visto.
Intanto, se in Italia solo poco più del 3% delle famiglie trova posto in abitazioni di edilizia sociale pubblica, in Austria la percentuale sale al 24%, in Francia al 16% e in Olanda al 29%. E la Commissione casa del Parlamento europeo sta elaborando un pacchetto di misure per sostenere l’edilizia sociale a prezzi calmierati, vincolato a regole per stabilizzare i mercati residenziali. Paesi come Spagna e Belgio hanno già introdotto norme per riequilibrare il mercato degli affitti e tutelare i residenti delle città contro la proliferazione degli affitti turistici brevi.
Il miraggio del partenariato pubblico-privato
Il governo punta molto sul coinvolgimento dei privati per colmare il gap finanziario. Si parla di fondi immobiliari, fondazioni, casse di previdenza, prestiti della Banca europea degli investimenti, fondi europei come InvestEU. L’ANCE suggerisce come possibili fonti di finanziamento 1,5 miliardi dalla riprogrammazione del PNRR, 2,5 miliardi dai fondi strutturali 2020-2027, 6 miliardi dal nuovo bilancio UE e altri fondi per arrivare ai 15 miliardi necessari.
Ma anche qui, si resta nel campo delle ipotesi. Il partenariato pubblico-privato ha senso solo se il pubblico mette sul tavolo una strategia chiara, risorse adeguate e un quadro normativo stabile. Al momento, mancano tutti questi elementi. Ciò che appare chiaro è che alla contrapposizione tra “sussidi” e “sussidiarietà” corrisponda anche la contrapposizione tra l’esclusività della responsabilità dello Stato davanti alle difficoltà dei cittadini, che per questo pagano le tasse, e il supporto crescente del privato. Una scelta che dovrebbe soltanto teoricamente garantire autonomia e responsabilità, ma che manca di visione e che ci allontana dal resto d’Europa.
Il Piano casa e la retorica della famiglia come “alibi”
Concentrare il Piano casa sulle “giovani coppie” e sulla “natalità” è una scelta che va oltre le politiche abitative per toccare questioni ideologiche. Certo, favorire la formazione di nuove famiglie da parte di chi lo desidera è un obiettivo condivisibile, ma limitare l’accesso alla casa a chi ha una relazione stabile da almeno due anni e non ha superato i 36 anni esclude di fatto una fetta consistente di popolazione che ha uguale diritto all’abitazione e che forse l’ha persino attesa di più.
Studenti fuorisede, giovani single, coppie di fatto di recente formazione, persone separate o divorziate: tutti sembrano non rientrare nella visione “familiare” del governo. Ma il diritto alla casa, sancito anche dalla Costituzione, non dovrebbe dipendere dallo stato civile o dalle scelte di vita personali. E poi, siamo davvero così sicuri che le coppie non facciano figli per la difficoltà nel trovare un’abitazione? Guarderei più alla mancanza di nidi gratuiti per i figli dei lavoratori, alla chiusura della scuola per tre mesi consecutivi in estate, alla sicurezza che manca in città e che impedisce ai genitori degli adolescenti di dormire sonni tranquilli, all’incertezza dei contratti di lavoro, agli stipendi insussistenti.
Assicuriamo i diritti a – tutti i cittadini -, diamo loro l’opportunità di lavorare e di gestire la famiglia, adeguiamo gli stipendi al costo della vita e supportiamo l’attività autonoma, recuperiamo gli alloggi popolari per i soggetti più fragili e distribuiamo le risorse per la formazione e l’aggiornamento professionale in maniera democratica. Chi dovrà affittare o comprare casa avrà i fondi per farlo.
Ivana Zimbone
Direttrice responsabile