L’articolo 31 della Costituzione italiana tutela la maternità e implica l’intervento dello Sato con misure adeguate per far sì che ogni donna sia messa nelle condizioni di diventare genitore. Alle già note difficoltà nel trovare e mantenere un lavoro – tra posti al nido mancanti e chiusure scolastiche – si aggiungono disparità ancora più profonde e meno visibili.
La maternità con partita IVA sembra essere di “serie b”: mentre le madri lavoratrici dipendenti sono protette da un sistema che garantisce loro l’80% dello stipendio per cinque mesi, le mamme lavoratrici autonome restano abbandonate a una roulette russa fatta spesso di indennità ridicole e incertezza del futuro.
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Maternità con partita IVA vs maternità da lavoratrice dipendente
Le lavoratrici dipendenti che diventano mamme hanno il diritto-dovere di astenersi dal lavoro per cinque mesi, solitamente suddivisi in due mesi prima del parto e tre mesi dopo, con l’opportunità di posticipare l’inizio del congedo con certificazione medica. Per tutto questo periodo continuano a percepire l’80% della retribuzione media giornaliera, talvolta integrata al 100% dal CCNL o dal datore di lavoro.
La maternità con partita IVA, invece, è un’incognita. La disparità tra le categorie – ovvero tra le iscritte all’INPS e alle casse previdenziali professionali private – si traduce nella mancanza di equità nel trattamento e in importi che mettono in ginocchio soprattutto coloro che hanno redditi bassi o carriere discontinue.
Quanto spetta alle mamme con partita IVA?
Per le lavoratrici autonome iscritte alla gestione separata INPS l’indennità di maternità si calcola sull’80% della retribuzione giornaliera stabilita annualmente dalla legge per il tipo di attività svolta. Ma esistono importi giornalieri minimi stabiliti annualmente e che, per il 2025, oscillano tra i 31,85 euro e i 57,32 euro a seconda della categoria.
La conseguenza? Le lavoratrici con partita IVA che hanno redditi bassi o stagionali, pur avendo versato i contributi, si ritrovano spesso con indennità ridicole che non bastano neppure ad acquistare i pannolini.
La lavoratrici autonome iscritte alle casse professionali – come la cassa forense, Inarcassa e CNPADC – ricevono un’indennità calcolata sull’80% di 5/12 del reddito professionale Irpef netto nel primo o secondo anno precedente l’evento di maternità, con limiti minimi e massimi variabili tra le varie casse. Anche per loro, in caso di reddito basso, l’indennità di maternità è irrisoria.
Le tutele aggiuntive e il congedo parentale
Alle lavoratrici dipendenti, oltre alla maternità, va un congedo parentale fino a 6 mesi, pagato al 30% della retribuzione. Nel 2025, la novità dei tre mesi pagati all’80% per i bambini nati da quest’anno in poi e per quelli il cui congedo di maternità obbligatorio termina dopo il 31 dicembre 2024.
Per la lavoratrici autonome con partita IVA il congedo parentale è accessibile con importi basati su limiti giornalieri minimi, così come per l’indennità di maternità, senza alcuna possibilità di integrazione.
In Svezia è tutta un’altra storia. Lì ogni genitore ha a disposizione 480 giorni di congedo, di cui 90 riservati alla mamma e 90 al papà, e di cui 390 indennizzati all’80% dello stipendio, con un tetto massimo, senza alcuna discriminazione tra dipendenti e autonomi. I restanti 90 giorni vengono indennizzati con circa 16 euro al giorno. In più, la Svezia prevede dei bonus per i nuclei familiari che scelgono di ripartire in modo equo i giorni di congedo, nonché l’opportunità per le coppie di usufruire di 30 giorni congiuntamente e di trasferirne 45 ai nonni.
I bonus maternità e le misure di sostegno che non bastano
Nel 2025 il governo Meloni ha introdotto il bonus mamme da 480 euro, questa volta pure per le dipendenti a tempo determinato e per le libere professioniste, fino al compimento del decimo anno del secondo figlio. A patto, però, che siano madri di almeno due figli, che abbiano un reddito inferiore a 40 mila euro e che non operino con regime fiscale forfettario.
La misura, che esclude un’ampia fetta di possibili beneficiarie, si aggiunge al bonus una tantum di 1.000 euro per ogni nuovo nato, sempre se con ISEE inferiore a 40 mila euro, all’assegno unico universale e al bonus asilo nido. Interventi che, ovviamente, riguardano anche le lavoratrici dipendenti e che non rappresentano una compensazione per le freelance.
I bonus spot fanno titoli sui giornali, ma non risolvono i problemi strutturali. In Italia far figli con partita IVA è un lusso che molte non possono permettersi e che richiede una dose indescrivibile di pazienza, pure per fare i conti con la burocrazia, per districarsi tra requisiti, documenti e scadenze diverse, anche nei momenti più delicati.
Maternità con partita IVA e rischio di perdita del lavoro
Che dire poi del rischio di perdita del lavoro? Se per le mamme lavoratrici dipendenti c’è garanzia di conservazione del posto, per le mamme con partita IVA non esiste tutela alcuna, nemmeno un’integrazione in caso di difficoltà. Le monocommitenti, poi, rischiano più delle altre l’interruzione dei flussi di cassa.
Sarà per questo che per le professioniste non v’è obbligo di astensione dall’attività lavorativa per i 5 mesi nei quali percepiscono l’indennità di maternità, a differenza di quanto previsto per le dipendenti?
Ciò che può apparire una “concessione generosa” è soltanto una riposta pragmatica in un contesto in cui, al netto della crisi del welfare, le lavoratrici autonome non possono permettersi di sospendere la loro attività nei mesi pre e post partum, pena la perdita di clienti. E non possono neppure assumere un dipendente – non avendo una società – che se occupi al posto loro.
È tempo di dire basta alla distinzione del valore di una madre in base al tipo di contratto e alle indennità da fame, garantendo tanto il diritto alla maternità, quanto l’uguaglianza formale e sostanziale delle cittadine, stabilita dall’art. 3 della nostra Costituzione.
Ivana Zimbone
Direttrice responsabile