Il campanello d’allarme suona forte e chiaro: aumentano i fallimenti delle imprese in Italia. Secondo i dati dell’Osservatorio procedure e liquidazioni di Cerved, nel secondo trimestre del 2025, le liquidazioni sono aumentate del 18% rispetto al 2024. Un dato preoccupante che presenta una realtà in cui la crisi d’impresa non solo persiste, ma si acuisce e colpisce soprattutto i settori più vulnerabili e le piccole medie imprese. Eppure, mentre in Italia fallire significa nessuna seconda occasione e niente fiducia, negli Stati Uniti, invece, è una ripartenza. Ma cosa succede concretamente? E perché negli Stati Uniti è parte della cultura d’impresa? Lo abbiamo chiesto all’avvocato Marco Ticozzi, esperto in diritto fallimentare e docente universitario.
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Perché aumentano i fallimenti delle imprese in Italia nel 2025
L’aumento dei fallimenti d’impresa andrebbe contestualizzato. “Durante il Covid, le misure straordinarie, come le moratorie sui debiti, la sospensione delle procedure, le garanzie pubbliche, avevano rallentato artificialmente il numero di fallimenti, portandoli ai minimi storici – spiega l’avvocato Marco Tiocozzi -. Quindi il dato attuale non è tanto un ‘boom’ di liquidazioni, quanto un ritorno graduale verso valori più normali. In realtà, se guardiamo al 2019, prima della pandemia, i livelli erano persino più alti di quelli attuali. Il peggioramento dell’ultimo anno credo sia legato alla fine dei sostegni e poi alla contrazione della domanda in alcuni settori, in particolare quello delle costruzioni (e settori collegati del comparto) per l’esaurimento del superbonus e le difficoltà nella liquidazione dei crediti fiscali, con conseguente difficoltà a pagare i subappaltatori”. A soffrire sarebbero anche il commercio al dettaglio, la logistica e le micro-imprese del terziario, già fragili per struttura.
Italia vs Stati Uniti: due visioni opposte del fallimento d’impresa
In Italia fallire è sinonimo di stigma. Negli Stati Uniti, è una tappa del percorso imprenditoriale, un’esperienza da cui imparare. “Nel nostro Paese, la liquidazione giudiziale è ancora lo strumento più utilizzato. Nonostante il nuovo Codice della crisi promuova la composizione negoziata e il concordato in continuità, nella pratica questi strumenti restano marginali – continua l’avvocato -. I numeri sono nettamente inferiori rispetto alle liquidazioni giudiziali e spesso mancano sia la cultura imprenditoriale della ristrutturazione precoce, sia la fiducia di creditori e fornitori in soluzioni di continuità. Si tratta, infatti, di percorsi alternativi che devono essere attivati dal debitore in difficoltà, possibilmente in tempo utile”.
Negli Stati Uniti il fallimento non è la fine ma un nuovo, e più consapevole, inizio. “Lì esiste la cultura della seconda possibilità, dove è normale tentare di salvare l’azienda con procedure rapide e flessibili – aggiunge -. Da noi, invece, il ricorso alla continuità resta l’eccezione, non la regola, e finché non cambierà questo approccio culturale sarà difficile invertire la tendenza”.
Gli imprenditori che hanno fallito? “Agiscono sotto mentite spoglie”
Chi fallisce in Italia si trova di fronte a un triplice ostacolo: la compromissione dell’accesso al credito, la perdita di reputazione, le responsabilità personali a volte anche gravi. “Molti interlocutori, dalle banche ai fornitori, vedono il fallimento come segnale di inaffidabilità, anche se dovuto a cause esterne. Sul piano finanziario, le segnalazioni nelle banche dati e in Centrale rischi rendono quasi impossibile ottenere nuovi prestiti. Così chi ha fallito è costretto a intestare nuove attività a terzi, pur continuando a gestirle in modo informale. Oppure a ‘nascondersi’ come dipendente, per ridurre il rischio di pignoramenti”, precisa Ticozzi.
In altre parole, l’imprenditore fallito non sparirebbe, ma verrebbe messo ai margini, “costretto” ad agire sotto mentite spoglie. “In questo modo il sistema perde talenti e know-how, alimentando un circolo vizioso. Il paradosso è che gli strumenti per evitare il fallimento esistono, ma sono poco usati. Manca la cultura della prevenzione, per questo gli imprenditori agiscono troppo tardi, quando la cristi è già strutturale e non più reversibile”.
Come evitare il fallimento
Per invertire la rotta, sarebbe necessaria una rivoluzione culturale. A partire dal riconoscimento del fatto che il fallimento possa essere parte del percorso imprenditoriale. E poi dall’integrazione, nei percorsi di formazione aziendale e manageriale, di una maggiore consapevolezza degli strumenti di allerta precoce e ristrutturazione.
Altrettanto importanti sarebbero le politiche pubbliche e gli incentivi volti alla continuità e ripartenza. “In Italia esistono strumenti per prevenire i fallimenti e aiutare le imprese in crisi o procedure alternative alla liquidazione giudiziale – conclude l’avvocato -. Strumenti, purtroppo, ancora poco utilizzati. Pesa soprattutto la scarsa cultura della ristrutturazione: molti imprenditori cercano di salvare l’azienda con le proprie forze, anche ricorrendo a finanziamenti soci, sacrificando quindi risorse personali, senza però risolvere alla radice i problemi strutturali”.
Cristina Siciliano
Giornalista e scrittrice