L’intelligenza artificiale è la nuova rivoluzione industriale: l’ultima occasione per l’Italia

Il mercato dell'intelligenza artificiale cresce in modo esponenziale e promette incrementi di produttività senza precedenti. Le imprese italiane conoscono l'AI, ne parlano, ma non la usano. E quando lo fanno, la usano male: senza strategia e senza coerenza.

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La storia non perdona chi aspetta troppo. Le rivoluzioni industriali hanno premiato chi si è mosso per primo. Lo sapeva bene Henry Ford, accusato di voler sostituire gli artigiani con le macchine. L’Italia sta per perdere il treno dell’intelligenza artificiale e rischia di restare a guardare da lontano gli altri Paesi crescere. L’atteggiamento attendista non protegge dai deliri dell’IA, perché non c’è modo di frenare l’innovazione, ma c’è di certo l’opportunità di utilizzarla in modo etico e funzionale.

Non regge nemmeno la scusa della qualità. Altrimenti il Belpaese investirebbe in ricerca e sviluppo, a cui invece destina soltanto l’1,5% del Pil, circa la metà della Germania. Fuga di talenti, salari bassi e scarsi investimenti non rappresentano una pura casualità. Sono lo specchio delle scelte di un Paese che vuole ottenere diversi risultati, ma percorrere le stesse strade. Serve una strategia nazionale che non lasci indietro nessuno: perché le scelte delle singole imprese ricadono sull’economia e, quindi, su tutti i cittadini. Sarebbe bello si scendesse in piazza anche per questo, per pensare in grande e non soltanto per elemosinare qualche spicciolo in più.

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Pil in Italia, produttività del Paese ferma da trent’anni

Il Pil in Italia cresce dello 0,6% nel 2025 e dello 0,8% nel 2026. Queste previsioni apparentemente positive nascondono una realtà tutt’altro che rassicurante. Il Paese resta lontano da una prospettiva reale di crescita: nel biennio 2025-2026, secondo Confindustria, il Pil mondiale aumenterà del 2,7% l’anno. Un vero miraggio per un’Italia che ha una produttività sostanzialmente ferma da trent’anni. Secondo il rapporto del Cnel, dal 1995 al 2024, è aumentata mediamente dello 0,2% l’anno, contro l’1,2% della media UE.

Difficile pensare che un Paese di “vecchi” possa invertire questa tendenza. La popolazione italiana continua a diminuire, la denatalità registra continuamente nuovi record e il sistema pensionistico scricchiola. Solo il 68% della fascia 25-64 anni lavora. Decine di migliaia di giovani ogni anno preferiscono lasciare l’Italia. I NEET – che non lavorano né studiano – sono diventati una piaga strutturale del mercato del lavoro, sintomo di un Paese che non riesce più a credere in nessuna prospettiva.

Al di là degli slogan politici, con questi numeri è difficile costruire l’autorevolezza a livello europeo e a livello internazionale tanto agognata durante le campagne elettorali. L’Europa nel suo complesso, poi, fatica a spiccare il volo: gli USA, dal 2007 ad oggi, hanno registrato una crescita media del 4,2% annuo, contro l’1,6% dell’UE, con un gap accumulato di oltre 70 punti percentuali di Pil. La Cina cresce del 5% l’anno e i BRICS+ raggiungono oltre il 36% del Pil mondiale.

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La trappola della stagnazione: addio welfare e potere d’acquisto

Il gap di produttività è dovuto principalmente alla stagnazione della produttività del lavoro. Una condizione che ha un impatto diretto sulla popolazione, visto che l’Italia registra il calo più significativo dei salari reali tra le principali economie del G20 dal 2008 a oggi. Se trent’anni di politiche economiche non hanno risolto il problema atavico della produttività, la speranza non può risiedere nella finanziaria di turno per la quale si continua a manifestare. Seppure gli investimenti abbiano, ovviamente, un loro peso. Né ci si può aspettare un salto di qualità del welfare con questo trend, assodato che le coperture non possano arrivare dall’alto.

Serve un salto tecnologico che permetta di fare di più con meno, di produrre meglio senza necessariamente aumentare la forza lavoro, che per demografia diminuisce. Serve uno strumento che possa moltiplicare l’efficienza delle nostre PMI, che possa far competere una piccola azienda manifatturiera italiana con i giganti globali. Con l’intelligenza artificiale, lo strumento è già realtà e sta cambiando le regole del gioco in ogni parte del mondo.

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Intelligenza artificiale e aumento del Pil, l’Italia resta a guardare?

Già nel 2024 diversi studi stimavano che, con l’adozione dell’AI, il Pil italiano potesse aumentare fino a 38 miliardi di euro entro il 2035, pari all’1,8%. D’altronde, per aver prova del miglioramento possibile, basta chiedere ai professionisti e alle imprese che hanno già percorso questa strada di quanto abbiano incrementato la propria produttività. Più della metà dei top management ha già rivelato benefici concreti in termini di riduzione dei costi e aumento dei profitti.

Eppure, nonostante il mercato dell’intelligenza artificiale sia cresciuto in modo esponenziale, tutti gli italiani ne abbiano sentito parlare e la maggioranza abbia un’opinione positiva, soltanto l’8,2% delle imprese italiane con almeno 10 addetti utilizza l’IA secondo l’Istat (dati aggiornati al 2024). La percentuale sale tra le grandi imprese al 32,5%. Nel 2025, però, schizza al 46% l’impiego dell’IA nel lavoro: questo significa che gli italiani usano ChatGPT e altri tool, ma le imprese no. O almeno, non abbastanza. E restano lontane anni luce dalla media europea del 13,5% e dal 19,7% della Germania.

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La sindrome attendista delle imprese italiane

Fatta eccezione per le poche imprese virtuose, si preferisce un atteggiamento attendista, vedere “cosa fanno gli altri” per poi sperare di seguirli a posteriori, come se si fosse sempre in tempo. Il paradosso è che, contemporaneamente, l’Italia sia il primo Paese europeo per lavoratori che investono nella propria formazione sull’intelligenza artificiale con una quota del 64%, secondo uno studio di EY Italy AI Barometer. Le competenze, dunque, ci sono, ma le imprese non sono pronte per sfruttare il massimo potenziale.

Da uno studio di Confindustria emerge addirittura come – a fronte di dati verificati sugli impatti positivi delle aziende che hanno adottato l’AI – più della metà delle imprese che ha preso in considerazione lo strumento non l’abbia adottata. Eppure, dietro questa resistenza si nasconde spesso un timore infondato.

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Non è l’AI a rubare il lavoro

Facile prevedere come le PMI perderanno presto la loro competitività, rischiando di sparire. Mentre parte del dibattito pubblico si concentra ancora sulla narrativa ansiogena delle macchine che sostituiscono l’uomo, la realtà economica mostra l’esatto opposto. Le aziende che integrano l’AI crescono, assumono, aumentano il valore del loro capitale umano. Quelle che non lo fanno si ritrovano lentamente ai margini, schiacciate da competitor più agili e da consumatori che richiedono standard sempre più elevati.

L’intelligenza artificiale non elimina il lavoro tout court: elimina inevitabilmente alcune mansioni, come dimostrano i licenziamenti annunciati da Amazon. Ma libera anche tempo, redistribuisce le energie verso attività più complesse, creative e ad alto valore aggiunto. È lo stesso tipo di transizione che abbiamo già vissuto con l’automazione industriale, con l’avvento dell’informatica, con la digitalizzazione dei servizi. Ogni volta c’è chi si è reinventato e ha preso il volo. Ma anche chi si è ostinato a considerare la novità come una minaccia, finendo per esserne travolto.

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L’immobilismo non è un’opzione: serve una strategia nazionale

Il problema non è (solo) economico, ma anche culturale. È il peso di una governance poco orientata alla sperimentazione, che investe quando tutto va male – e mai quando servirebbe davvero, cioè prima –, di un management che spesso non possiede le competenze per valutare gli strumenti che ha davanti.

Confondere la prudenza con l’immobilismo è assai rischioso. Lo hanno capito freelance, consulenti, professionisti, creator, tecnici specializzati: sono loro, oggi, a rappresentare la prima linea dell’adozione dell’AI. Non perché “siano visionari”, ma per un motivo molto più semplice: se non lavorano in modo efficiente, non campano. Il mercato del lavoro autonomo è spietato e questo lo rende – paradossalmente – più moderno del mercato delle PMI.

Il vero rischio, dunque, non è che l’intelligenza artificiale ci sostituisca. È che l’Italia resti ai margini di un’altra rivoluzione industriale.

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Ivana Zimbone

Direttrice responsabile

Direttrice responsabile di Partitaiva.it e della rivista filosofica "Vita Pensata". Giornalista pubblicista, SEO copywriter e consulente di comunicazione, mi sono laureata in Filosofia - con una tesi sul panorama dell'informazione nell'era digitale - e in Filologia moderna. Ho cominciato a muovere i primi passi nel giornalismo nel 2018, lavorando per la carta stampata e l'online. Mi occupo principalmente di inchieste e approfondimenti di economia, impresa, temi sociali e condizione femminile. Nel 2024 ho aperto un blog dedicato alla comunicazione e alle professioni digitali.

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