Le criptovalute sono monete digitali basate sulla blockchain. Bitcoin è stata la prima criptovaluta decentralizzata, mentre le stablecoin sono cripto-attività nate successivamente per mantenere un valore stabile, tipicamente ancorato a una valuta tradizionale (come il dollaro USA o l’euro) o ad asset di riferimento. In pratica, 1 unità di una stablecoin vale circa 1 USD o 1 EUR, grazie a meccanismi di collateralizzazione o algoritmici di stabilizzazione.
Dal punto di vista economico, Bitcoin viene spesso considerato un asset speculativo o un deposito di valore alternativo, con oscillazioni di prezzo significative. Le stablecoin invece svolgono prevalentemente la funzione di mezzo di scambio stabile all’interno dei mercati cripto, per parcheggiare liquidità senza uscire dall’ecosistema digitale.
Non è raro che gli operatori sul mercato crypto scambino bitcoin contro stablecoin a seconda delle loro strategie. In alcuni casi, la conversione può generare una plusvalenza, come avviene per altro sul mercato forex quando si scambiano euro contro dollari (yen, sterline) o viceversa.
Ebbene: questa plusvalenza è tassata in Italia?
Indice
Nessuna tassazione sul cambio bitcoin-ethereum
Il trattamento fiscale delle operazioni con criptovalute in Italia è stato definito dalla Legge di Bilancio 2023, ma presenta diverse sfumature a seconda del tipo di conversione effettuata.
Quando scambiamo Bitcoin con Ethereum (BTC-ETH), o altre criptovalute tradizionali, non si genera alcuna tassazione immediata. La legge italiana, infatti, non considera fiscalmente rilevante la permuta tra cripto-attività che condividono le stesse caratteristiche e funzioni.
È come se stessimo semplicemente sostituendo un asset con un altro simile, senza realizzare materialmente un guadagno. Il costo originario dei Bitcoin viene trasferito agli Ether ricevuti, e solo quando questi verranno eventualmente convertiti in euro emergerà una plusvalenza tassabile.
Conversione da criptoasset a stablecoin
Lo scenario cambia completamente quando convertiamo Bitcoin in stablecoin, e qui entra in gioco una distinzione introdotta dalla normativa europea MiCA. Se la stablecoin è classificabile come “e-money token”, lo scambio viene equiparato a una conversione in valuta fiat, generando quindi una plusvalenza imponibile.
Perché questo trattamento? Perché queste stablecoin garantiscono un diritto di rimborso a valore nominale in valuta reale, comportandosi di fatto come moneta elettronica.
Affinché una stablecoin sia considerata e-money token, deve soddisfare precisi requisiti, ossia:
- essere ancorata a una singola valuta fiat;
- garantire un diritto di credito verso l’emittente;
- offrire la possibilità di rimborso in qualsiasi momento al valore nominale;
- essere emessa da un soggetto autorizzato, idealmente con licenza EMI.
Se invece la stablecoin è un “asset-referenced token”, priva di garanzia di rimborso a valore nominale, lo scambio resta fiscalmente neutro, analogamente alla permuta tra Bitcoin ed Ethereum.
Quando vendiamo Bitcoin direttamente per euro o dollari, la situazione è chiara: si tratta di una conversione diretta in valuta fiat che genera sempre una plusvalenza tassabile.
Quando cambiamo Bitcoin in Tether (USDT), la più importante stablecoin al mondo, il ragionamento è lo stesso: infatti, Tether è un token crypto che per costruzione vale 1 dollaro in modo stabile e permanente (lo vediamo più in basso). Di fatto, è come aver cambiato BTC in denaro.
Lo stesso vale quando utilizziamo Bitcoin per acquistare beni o servizi: si considera questa operazione alla stregua di una vendita, con conseguente emersione di una plusvalenza imponibile.
Trattamento fiscale delle conversioni
Tipo di conversione | Trattamento fiscale | Note |
Bitcoin → Ethereum | Non tassabile | Permuta tra cripto con stesse caratteristiche e funzioni |
Bitcoin → Stablecoin (e-money token, es. USDT) | Tassabile | Equiparato a conversione in valuta fiat |
Bitcoin → Stablecoin (asset-referenced token) | Non tassabile | Se la stablecoin non garantisce rimborso a valore nominale |
Bitcoin → Euro/USD | Tassabile | Conversione diretta in valuta fiat |
Bitcoin → Acquisto beni/servizi | Tassabile | Equiparato a realizzo a titolo oneroso |
La stablecoin Tether (USDT)
Tether rappresenta probabilmente il caso più emblematico nel mondo delle stablecoin. USDT è diventato un pilastro fondamentale dell’intero ecosistema crypto, con una capitalizzazione di mercato che supera i 140 miliardi di dollari.
La notorietà di Tether è cresciuta ulteriormente nel 2025, quando i suoi vertici aziendali, Paolo Ardoino e Giancarlo Devasini, hanno fatto notizia per aver acquisito oltre il 10% delle quote della Juventus F.C. Ma come funziona esattamente?
Quando un utente acquista USDT, Tether riceve dollari reali e in cambio emette token digitali che mantengono un rapporto di cambio fisso 1:1 con il dollaro. Questo sistema funziona grazie a un modello di riserve che, secondo quanto dichiarato dalla società, garantisce la completa copertura di ogni token in circolazione. Tali riserve sono composte principalmente da Buoni del Tesoro americani (che costituiscono la maggioranza degli asset), contanti e depositi bancari, strumenti finanziari a breve termine e, in percentuali minori, altri investimenti.
Dal punto di vista fiscale, Tether si trova in una posizione particolare. Sebbene non abbia ancora ottenuto formalmente una licenza come Istituto di Moneta Elettronica secondo i requisiti della normativa europea MiCA, l’Agenzia delle Entrate italiana lo considera assimilabile a un e-money token. Questa classificazione deriva da diversi fattori:
- l’ampia adozione globale di USDT;
- il suo ruolo di proxy per il dollaro grazie all’ancoraggio 1:1;
- la struttura delle riserve che teoricamente garantiscono il rimborso al valore nominale.
La conseguenza pratica è che lo scambio tra Bitcoin e USDT viene considerato fiscalmente rilevante in Italia, generando potenziali plusvalenze imponibili, esattamente come se stessimo convertendo Bitcoin in dollari reali.
La tassazione delle plusvalenze
Con la Legge di Bilancio 2023, il legislatore italiano ha finalmente fatto chiarezza sul trattamento fiscale delle criptovalute, inserendole ufficialmente nel nostro ordinamento tributario. Le plusvalenze e gli altri proventi derivanti dalle operazioni con cripto-attività sono stati inclusi tra i “redditi diversi” all’art. 67 del TUIR (Testo Unico delle Imposte sui Redditi), con un’aliquota dell’imposta sostitutiva fissata al 26%, esattamente come per gli altri investimenti finanziari tradizionali.
Come si calcola la plusvalenza
Di base si prende il valore incassato dalla vendita e si sottrae il costo originario di acquisto della cripto ceduta. La differenza rappresenta la plusvalenza imponibile. Ad esempio, se abbiamo acquistato Bitcoin per 5.000 euro e li vendiamo per 8.000, la plusvalenza sarà di 3.000 euro, su cui pagheremo un’imposta del 26%, pari a 780 euro.
Quando si effettuano più acquisti della stessa criptovaluta in momenti diversi, la legge prevede l’applicazione del criterio LIFO (Last In, First Out): si considera ceduta per prima l’ultima cripto-attività acquistata. Questo metodo, tuttavia, può risultare complicato per chi effettua numerose operazioni.
In alternativa, è possibile utilizzare il metodo del costo medio ponderato, spesso più pratico e gestibile, soprattutto per chi fa trading attivo o investe regolarmente. Con questo approccio si sommano tutti i costi sostenuti per acquistare una determinata criptovaluta e si divide per il numero totale di unità acquisite, ottenendo così un costo unitario medio. Ad esempio, se abbiamo acquistato 0,5 BTC a 20.000 euro e successivamente altri 0,5 BTC a 40.000 euro, il costo medio sarà di 30.000 euro per Bitcoin intero. Quando venderemo una parte dei nostri Bitcoin, applicheremo questo valore medio per calcolare l’eventuale plusvalenza.
È importante conservare accuratamente la documentazione relativa a tutti gli acquisti e le vendite, perché in caso di accertamento sarà nostra responsabilità dimostrare il costo sostenuto. In assenza di documentazione valida, il fisco considera il costo pari a zero, con conseguente tassazione dell’intero ricavato.
Novità fiscali 2025-2026
La recente Legge di Bilancio 2025 ha introdotto importanti novità che cambieranno significativamente il modo in cui gli investitori dovranno gestire il proprio portafoglio di asset digitali.
La prima novità rilevante riguarda l’eliminazione della franchigia di 2.000 euro. Fino al 2024, le plusvalenze da cripto-attività erano imponibili solo se superavano complessivamente i 2.000 euro nell’anno fiscale. Dal 1° gennaio 2025, invece, anche i guadagni più modesti saranno soggetti a tassazione integrale.
Un’altra notizia importante, e certamente non positiva per gli investitori, è l’aumento dell’aliquota fiscale previsto per il futuro. Mentre per il 2025 l’imposta sostitutiva rimarrà al 26%, dal 1° gennaio 2026 salirà al 33%, un incremento significativo che porterà la tassazione delle criptovalute a livelli decisamente superiori rispetto agli investimenti finanziari tradizionali, come azioni e fondi, che continueranno a essere tassati al 26%.
Non tutte le novità sono negative per gli investitori. Il legislatore infatti ha introdotto la possibilità di rideterminare il valore fiscale delle cripto-attività possedute al 1° gennaio 2025. In pratica, si potrà assumere come nuovo costo fiscale il valore di mercato a quella data, pagando un’imposta sostitutiva agevolata del 18%. Il versamento potrà essere effettuato in un’unica soluzione entro il 30 novembre 2025, oppure in tre rate annuali di pari importo, con la prima rata da versare entro la stessa data e un interesse del 3% annuo sulle rate successive.
Questa opzione di rivalutazione può essere un’opportunità vantaggiosa per chi ha acquistato criptovalute a prezzi molto inferiori rispetto a quelli attuali e prevede di liquidare le proprie posizioni nel prossimo futuro. Pagando il 18% sul valore corrente, infatti, si potrà riazzerare la plusvalenza potenziale, evitando l’imposta del 33% che si applicherebbe dal 2026.
Esempio:
Se abbiamo acquistato Bitcoin a 10.000 euro che al 1° gennaio 2025 valgono 50.000 euro, in caso di vendita nel 2026 senza rivalutazione, pagheremmo un’imposta del 33% su 40.000 euro di plusvalenza, pari a 13.200 euro. Optando invece per la rivalutazione pagheremmo il 18% su 50.000 euro, ossia 9.000 euro, con un risparmio netto di 4.200 euro.
Come ottimizzare la propria posizione fiscale
Il quadro normativo si fa sempre più articolato, la tassazione aumenta e perciò è essenziale pensare a delle strategie fiscali legittime per gestire il proprio portafoglio di criptovalute.
Compensare con le minusvalenze
Una delle più interessanti è il “tax loss harvesting“, letteralmente “raccolta delle perdite fiscali”. Consiste nel vendere strategicamente asset in perdita per compensare le plusvalenze realizzate nello stesso periodo d’imposta. La normativa italiana consente infatti di compensare le minusvalenze con le plusvalenze della stessa categoria, e se le minusvalenze eccedono i 2.000 euro, possono essere riportate in avanti fino a quattro anni successivi.
Esempio:
Immaginiamo di aver venduto Bitcoin realizzando una plusvalenza di 10.000 euro. Se nel nostro portafoglio abbiamo altre criptovalute in perdita, potremmo decidere di venderne alcune per generare minusvalenze di, diciamo, 7.000 euro. La plusvalenza netta scenderà così a 3.000 euro, e l’imposta da pagare da 2.600 euro sarà di 780 euro.
Pianificazione delle vendite
Un’altra strategia è la pianificazione pluriennale delle vendite. Anziché liquidare grandi quantità di criptovalute in un unico anno fiscale, si possono distribuire le vendite su più anni. In questo modo si evita di concentrare troppi guadagni in un singolo periodo e si può beneficiare di eventuali compensazioni con minusvalenze in anni diversi. Ovviamente ci si espone al rischio che il valore della crypto da vendere diminuisca.
Esempio:
Consideriamo il caso di un investitore che detiene criptovalute per un valore di 100.000 euro, con un costo di acquisto di 50.000 euro. Se liquidasse tutto in un solo anno realizzerebbe una plusvalenza di 50.000 euro, con un’imposta di 13.000 euro (al 26%). Distribuendo invece le vendite su due o tre anni si può ridurre l’impatto fiscale complessivo, soprattutto se alcune posizioni dovessero temporaneamente perdere valore o se si presentassero opportunità di compensazione con altre minusvalenze.
Monitoraggio fiscale
Oltre al pagamento delle imposte sulle plusvalenze i possessori di criptovalute devono considerare gli obblighi di monitoraggio fiscale. In Italia, i contribuenti residenti sono tenuti a dichiarare nel Quadro RW della dichiarazione dei redditi gli investimenti e attività finanziarie detenute all’estero, ai fini del monitoraggio delle attività estere e dell’IVAFE.
In caso di omessa compilazione del quadro RW, le sanzioni possono essere dal 3% al 15% dell’importo non dichiarato, raddoppiate se detenuto in paesi black-list. Inoltre un’eventuale omessa indicazione può pregiudicare la possibilità di accedere a future sanatorie.
Giovanni Emmi
Dottore Commercialista