La Global minimum tax (GMT), nota anche come pillar two del quadro Ocse/G20 del 2021, introduce un’imposta minima del 15% applicabile a tutte le multinazionali con un fatturato annuo di almeno 750 milioni di euro. Tuttavia, l’accordo raggiunto dal G7 a fine giugno in Canada ha improvvisamente cambiato le carte in tavola: le multinazionali statunitensi, incluse le big tech, saranno esentate dal nuovo tributo. Ecco cosa è successo.
Global minimum tax: la proposta dell’Osce
Il progetto iniziale dell’Osce, presentato nel 2021, si inseriva in un contesto politico favorevole. L’accordo fu firmato da oltre 140 Paesi, tra cui tutti gli Stati dell’Unione europea, il Regno Unito, la Norvegia, l’Australia, il Canada, la Corea del Sud e il Giappone. Il sistema si reggeva su due pilastri:
- la rilocalizzazione della tassazione, con l’imposizione fiscale avviene dove le multinazionali generano i loro profitti, non solo dove hanno la sede legale;
- l’introduzione di una tassa minima effettiva globale del 15%, da applicare a livello di gruppo, indipendentemente dal luogo in cui si localizzano le società.
Oggi, 22 dei 27 Paesi membri hanno già recepito in modo completo la global minimum tax. In Lituania, le normative sono ancora in fase di bozza mentre in Slovacchia due delle tre componenti del tributo sono state posticipate, data la scarsità di grandi gruppi aziendali nel Paese. Invece, Malta, Lettonia ed Estonia hanno preferito ritardare le misure di adozione al 2030.
In Italia, la tassa è stata recentemente inserita nel riassetto del sistema fiscale tramite il decreto legislativo 209/2023, accompagnato da vari decreti attuativi. Tuttavia, il sistema di tassazione delle imprese multinazionali pensato dall’Osce sembra sgretolarsi. Durante l’ultimo G7, Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia e Regno Unito hanno accettato l’esenzione delle multinazionali USA, comprese le cosiddette big tech, dalla global minimum tax.
Cosa è stato deciso al G7
Ufficialmente l’esenzione è stata motivata “in virtù delle regole di tassazione minima esistenti negli USA a cui sono soggetti” i gruppi di società multinazionali, come comunicato dalla presidenza di turno canadese. Si fa riferimento al sistema di tassazione GILTI (acronimo di Global Intangible Low-Taxed Income), istituito negli Stati Uniti nel 2017 durante la prima amministrazione Trump.
Questo regime prevede l’imposizione fiscale sui profitti generati all’estero che superano una certa soglia di rendimento. Tuttavia, finora questa imposta, caratterizzata da un’aliquota relativamente bassa, non è stata riconosciuta da altri Paesi come equivalente alla global minimum tax. Proprio per questo si era deciso di applicarla anche alle imprese americane.
Gli effetti della Global minimum tax
Adesso le imprese – sui cui gravano ormai anche i dazi imposti da Trump – potrebbero scegliere di trasferire le proprie sedi negli USA per godere del trattamento di favore, mentre l’UE potrebbe trovarsi costretta a rivedere il proprio approccio, tra il rischio di nuovi dazi americani e lo svantaggio competitivo per le aziende europee. Inoltre, il mancato accordo potrebbe riaccendere la competizione fiscale tra le nazioni. Altri Paesi, seguendo l’esempio degli Stati Uniti, potrebbero introdurre regimi fiscali nazionali simili, invocando così l’esenzione dall’imposta globale.
L’accordo side by side
L’accordo fiscale internazionale si basa su un approccio cosiddetto “side by side”, che prevede la coesistenza di due sistemi fiscali paralleli: da un lato c’è la minimum tax, promossa dall’Osce, mentre dall’altro c’è la normativa statunitense, che già dispone di misure per contrastare lo spostamento di profitti verso Paesi con bassa tassazione. La Commissione europea ha indicato che tali modifiche potrebbero essere inserite come safe harbour, ovvero come strumenti di semplificazione, ai sensi dell’articolo 32 della direttiva 2022/2523.
Cristina Siciliano
Giornalista e scrittrice