Il rapporto con il denaro: cosa ci insegnano Parmalat, MPS, Ferragni e Barilla

I soldi possono finanziare ospedali o alimentare guerre, sostenere la ricerca scientifica o corrompere funzionari pubblici, migliorare il benessere di interi Paesi o arricchire un ristretto numero di persone. Il denaro è impersonale, non ha un valore intrinseco e rappresenta una "tecnologia sociale". Liberiamoci degli stereotipi.

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rapporto con il denaro

“Mamma, dicono che i soldi non facciano la felicità. Ma come sostenere che si possa essere felici, da poveri? E come fare la beneficienza che gli stessi ci suggeriscono, senza denaro?”. I bambini, che spesso consideriamo “lontani” dal mondo degli adulti, sanno utilizzare la logica meglio di chiunque altro, scovando le contraddizioni che fanno parte del nostro quotidiano, anche quando si tratta del nostro rapporto con il denaro. Condanniamo l’avidità e l’attaccamento ai beni materiali, ma alimentiamo un sistema basato sul consumismo sfrenato e sulla crescita perpetua; critichiamo la ricchezza, ma misuriamo il successo delle nazioni con il PIL. Una schizofrenia collettiva che si manifesta nella gestione pratica delle risorse a nostra disposizione e che finisce per farci perdere grandi occasioni. Esistono banche, imprese e imprenditori che in Italia hanno mostrato il loro rapporto immaturo con la ricchezza. Ma ognuno di noi può fare la differenza.

Il denaro come “male assoluto”: l’associazione tra ricchezza e peccato

La nostra relazione con il denaro è ambivalente: lo desideriamo ardentemente, ma siamo pronti a condannarne l’accumulo; lo inseguiamo, ma guardiamo con sospetto chi lo possiede in abbondanza. Secoli di tradizioni filosofiche e religiose hanno plasmato il nostro inconscio collettivo fino a creare un cortocircuito. Come si suol dire, “una lotta tra poveri”.

Nelle tradizioni religiose abramitiche, l’associazione tra ricchezza e corruzione morale è esplicita. Il cattolicesimo, per esempio, interpreta Matteo 19:24 come un’esaltazione della povertà: “È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli”, si traduce quasi con “se sei ricco, non potrai avere vita eterna”. Un principio, evidentemente, valido per i fedeli ma non per lo Stato della Chiesa. Riproducendo la stessa dicotomia – ormai apparentemente superata – tra scienza e religione, il cattolicesimo trasforma il bisogno di rivalsa tremendamente umano in un bisogno di riscatto, che non deve avvenire sulla Terra, ma nell’aldilà in cui i vinti diventano vittoriosi per grazia divina.

A guardare con sospetto l’accumulo di denaro furono già i greci, discernendo – con intelligenza – il mezzo dal fine. Aristotele distingueva una crematistica “naturale”, di carattere acquisitivo, da una crematistica “innaturale” che vedeva la ricchezza come fine a se stessa. Nella “Repubblica” di Platone, la classe dei guardiani era priva di proprietà privata, non perché fosse brutta e cattiva, ma per evitare conflitti d’interesse.

La trasformazione moderna del rapporto con il denaro

La modernità ha provato a superare questa concezione, tentando di rendere più libera da vincoli la nostra relazione con il denaro. Max Weber, nel suo celebre “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”, ha mostrato come alcune correnti del protestantesimo abbiano trasformato l’accumulo di ricchezza: da tentazione pericolosa, è diventata segno visibile della grazia divina, che con il successo si manifesta sulla Terra, nel qui e ora.

Le due diverse rappresentazioni della ricchezza sono oggi i poli contrapposti dello stesso fenomeno. Così, da una parte celebriamo l’imprenditorialità e ci ispiriamo alle storie di successo economico, dall’altra siamo inclini alle teorie del complotto e ai giudizi negativi nei confronti dei ricchi, mantenendo vecchi stereotipi.

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I casi che confermano la regola in Italia

È la realtà che produce il pensiero o viceversa? Non lo sapremo mai. Ciò che è certo, però, è che esiste una serie ben nutrita di scandali, crisi e storie imprenditoriali che, nella storia italiana, hanno confermato l’associazione di ricchezza e “male”.

Il caso Parmalat, nel 2003, ci ha insegnato come il denaro possa avere impatti devastanti su investitori e dipendenti, a causa della manipolazione dei bilanci e della creazione di fondi inesistenti per miliardi di euro. Le crisi delle banche popolari ci hanno dimostrato come persino i piccoli risparmiatori possano diventare vittime di ingiustizie. Le operazioni rischiose e poco trasparenti della Monte Paschi di Siena negli anni 2000 – in particolare con prodotti derivati, usati per occultare enormi perdite – hanno provato la grave possibilità di ritardi nell’intervento delle autorità di controllo.

Il gruppo Benetton è invece la testimonianza di come la ricchezza e il potere economico possano essere inversamente proporzionali alla responsabilità etica e sociale, mentre il pandoro-gate di Chiara Ferragni di come alcune iniziative di beneficienza possano essere usate come specchietto per le allodole.

Ma poi ci sono gli esempi positivi, come Ferrero, Luxottica e Barilla, di cui dovremmo essere orgogliosi e che suggeriscono che la ricchezza non abbia sempre una contropartita.

Il denaro come “tecnologia sociale”: la paura di “avere un prezzo” e di “valere poco”

In fondo, ha ragione il filosofo John Searle: il denaro esiste solo perché collettivamente accettiamo che esista, per cui oggetti fisicamente insignificanti, come banconote di carta o bit digitali, acquistano funzioni e poteri straordinari attraverso la nostra intenzionalità collettiva e le regole condivise.

Questo significa che il denaro non è intrinsecamente buono o malvagio, ma è semplicemente una creazione sociale che riflette i nostri valori, le nostre paure, le nostre aspirazioni. Se gli attribuiamo qualità negative è solo perché proiettiamo su di esso le nostre ansie sulla mercificazione delle relazioni umane, sulla quantificazione di ciò che consideriamo sacro, sul potere che conferisce in società dove non v’è uguaglianza.

Dobbiamo ammettere, però, che queste ansie non siano del tutto infondate. Come già individuato da Georg Simmel, il denaro è un mezzo impersonale che trasforma le nostre relazioni qualitative in quantitative. Potremmo dunque aver paura di “avere un prezzo” e di “valere poco”, o meglio di avere il valore che terzi ci attribuiscono e di perdere completamente l’autenticità dell’esperienza personale.

Immaturo rapporto con il denaro: conseguenze psicologiche e finanziarie

Avere una sana relazione con il denaro significa riscrivere il proprio “destino”. Diversi esperimenti scientifici hanno dimostrato, infatti, come i semplici giudizi sulla ricchezza modifichino i comportamenti delle persone e le loro conseguenze. Il senso di colpa associato al possesso o al desiderio di denaro – tipico di chi, a livello profondo, lo associa a qualità negative come l’egoismo, la superficialità o la corruzione morale – può generare veri e propri blocchi psicologici inconsci che impediscono il successo finanziario.

Per dirlo alla Stephen Covey, la differenza tra una “mentalità di scarsità” e una “mentalità di abbondanza” sta nella proprio nel comprendere che la ricchezza può essere creata e non soltanto distribuita.

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Una nuova etica della prosperità

Superare questa contraddizione ancestrale è possibile solo riconciliandoci con il nostro desiderio legittimo di prosperità, definendo degli obiettivi etici. Come? Una risposta viene dalla filosofia contemporanea. John Rawls, nella sua “Teoria della giustizia”, propone un esperimento mentale: se dovessimo stabilire i principi di una società giusta da dietro un “velo di ignoranza”, senza sapere quale posizione occuperemmo in essa, che tipo di distribuzione della ricchezza sceglieremmo? La sua risposta è che permetteremmo disuguaglianze solo nella misura in cui queste portassero beneficio ai meno avvantaggiati.

Amartya Sen e Martha Nussbaum hanno sposato questa prospettiva facendo ancora dei passi avanti, con il loro “approccio delle capacità”, ridefinendo la ricchezza non come mero possesso materiale, ma come libertà sostanziale di realizzare i propri progetti di vita. La vera prosperità, in questa visione, consiste nell’espansione delle capacità umane fondamentali, non nell’accumulo come fine in sé.

Rapporto con il denaro e narrazione del successo

 “Il problema del mondo è che gli stupidi sono sicuri di sé, mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi”, suggeriva Bertrand Russell. E’ tempo che le donne e gli uomini di buona volontà – e con un’etica trasparente – superino la dicotomia tra successo materiale e integrità morale, conquistando il loro spazio nel mondo (e sul mercato).

I soldi fanno o non fanno la felicità? I nostri possono farla per molti, a patto di liberare il nostro rapporto con il denaro dagli stereotipi. A patto di pensare che il successo non debba essere soltanto individuale, ma collettivo. A patto che il successo faccia rima con imprenditoria consapevole, investimenti responsabili e impegno civico.

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Ivana Zimbone

Direttrice responsabile

Direttrice responsabile di Partitaiva.it e della rivista filosofica "Vita Pensata". Giornalista pubblicista, SEO copywriter e consulente di comunicazione, mi sono laureata in Filosofia - con una tesi sul panorama dell'informazione nell'era digitale - e in Filologia moderna. Ho cominciato a muovere i primi passi nel giornalismo nel 2018, lavorando per la carta stampata e l'online. Mi occupo principalmente di inchieste e approfondimenti di economia, impresa, temi sociali e condizione femminile. Nel 2024 ho aperto un blog dedicato alla comunicazione e alle professioni digitali.

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