La Corte d’appello di Roma, con la sentenza n. 3372/2025 del 25 ottobre, si è espressa definendo principi e condizioni di validità di un patto di non concorrenza. I giudici, nel dettaglio, hanno dichiarato nullo un patto stipulato tra datore di lavoro e lavoratore che, per ampiezza dell’oggetto e dimensione territoriale, risultava “assoluto”. Di fatto, cioè, impediva al lavoratore qualsiasi possibilità di impiego nel proprio settore professionale.
Il caso riguardava un accordo che vietava a un ex dipendente di svolgere attività analoghe non solo in Italia, ma nell’intera Europa. Un vincolo che, secondo la Corte, travalicava i limiti fissati dall’articolo 2125 del codice civile. Sebbene questa sentenza riguardi specificamente un rapporto di lavoro subordinato, quello dei giudici è un criterio di portata generale che trova applicazione anche nei rapporti di lavoro autonomo.
Quando un patto di non concorrenza è da considerare nullo
Come stabilito dall’articolo 2125 del codice civile, il patto di non concorrenza è valido solo se circoscritto in termini di oggetto, tempo e luogo e se consente comunque al lavoratore di mantenere un margine di attività coerente con le proprie competenze. Di conseguenza, come ribadito dalla Corte d’appello di Roma, ogni patto che non rispetta queste condizioni è da considerarsi nullo.
Il patto di non concorrenza non può cioè essere esteso, per territorio e ad attività, così tanto da impedire di svolgere qualsiasi lavoro riconducibile alla propria professione. Un divieto eccessivo, infatti, finirebbe per provare il lavoratore (incluso il libero professionista) della possibilità di procurarsi un reddito adeguato alle esigenze proprie e della famiglia, violando così la ratio della norma.
Cosa cambia per i professionisti e le imprese
La sentenza rappresenta un monito importante per aziende e professionisti. I patti di non concorrenza devono essere definiti con attenzione, individuando chiaramente le attività vietate, il perimetro territoriale e la durata del vincolo. Ma a questo punto bisogna fare una precisazione. Anche se, nel motivare la decisione, i giudici romani hanno chiarito che il patto non necessitava di una specifica approvazione scritta, ciò non esclude il dovere di verificare che il contenuto del vincolo sia proporzionato e rispettoso dei limiti legali.
Cosa vuol dire, di fatto? L’obbligo della doppia firma (ovvero specifica approvazione scritta) non si applica ai patti di non concorrenza elaborati su misura. Questi però continuano a dover essere redatti. Possono cioè essere dei patti scritti su uno specifico documento o anche una clausola del contratto di assunzione o dell’accordo con il professionista. In ogni caso, devono specificare l’oggetto, il territorio, la durata e il corrispettivo. Il patto, in questo modo, resta soggetto al vaglio di validità in merito alla sua proporzionalità e ai limiti legali. Di conseguenza, se il contenuto è troppo ampio (come nel caso giudicato, esteso a tutta l’Europa e a qualsiasi attività riconducibile al background professionale), sarà comunque dichiarato nullo perché viola il principio di proporzionalità e la libertà di iniziativa economica del lavoratore.












Redazione
Il team editoriale di Partitaiva.it