Ci sono autonomie differenziate che non piacciono al governo. Così le leggi della Regione Toscana finiscono sistematicamente nel mirino: prima quelle sul turismo, sulle concessioni demaniali marittime e sul “fine vita”, ora quella sul salario minimo. Perché non s’ha da fare un’azione concreta su certi temi, nemmeno se si tratta di incentivi – e non obblighi – per chi vive di fondi pubblici.
La legge sul salario minimo in Toscana
Dopo la Puglia, anche la Toscana ha osato farlo. La legge regionale n.30 del 18 giugno 2025 stabilisce che negli appalti pubblici – basati sull’offerta economicamente più vantaggiosa – venga attribuito un punteggio premiale alle imprese che pagano i loro dipendenti almeno 9 euro l’ora. Una misura che non obbliga, ma certamente incentiva, le imprese a migliorare la qualità dei salari in settori tradizionalmente caratterizzati da retribuzioni misere, come le pulizie e la vigilanza. Settori che, paradossalmente, hanno spesso facile accesso ai bandi pubblici, proprio perché la concorrenza si gioca al ribasso sui costi del lavoro.
La proposta non nasce dal nulla. Nel 2023 l’opposizione l’aveva avanzata al governo nazionale, salvo poi vederla finire nel vortice delle modifiche sostanziali e dei rinvii. Intanto ben 22 Paesi su 27 dell’UE hanno già affrontato la questione. E se 9 euro sembrano “eccessivi”, la Germania ha deciso di alzare l’asticella a 14,60 euro entro il 2027.
Il governo dice no
La reazione dell’esecutivo è stata immediata: ricorso alla Corte costituzionale. Secondo Palazzo Chigi, la norma violerebbe le leggi statali sulla tutela della concorrenza e, in base all’articolo 117 della Costituzione, solo lo Stato potrebbe legiferare in materia. Il presidente della Toscana Eugenio Giani, del PD, ha annunciato la costituzione in giudizio per difendere la norma, approvata con il sostegno di PD, M5s e Alleanza Verdi e Sinistra.
Va bene dunque offrire dei punteggi premiali alle imprese con “bollino rosa”, che favoriscono le pari opportunità tra i generi, ma quelle che pagano dignitosamente i loro dipendenti no. Nemmeno quando queste incassano il denaro pubblico che, in buona parte, proviene dalle tasse dei cittadini.
Il nodo del lavoro povero
Nel frattempo viene approvato il decreto Economia che interviene sulle imprese, senza affrontare il fenomeno del lavoro povero e la debolezza strutturale delle retribuzioni italiane. Un approccio miope, visto che nessuna azienda esiste senza dipendenti e che le imprese che offrono salari migliori risultano più produttive.
Il vuoto normativo nazionale rafforza inevitabilmente le iniziative regionali. In un Paese normale questo dovrebbe spronare lo Stato a intervenire rapidamente con una strategia organica. In Italia, invece, si preferisce scoraggiare chi non resta immobile, ponendo ostacoli ingiustificati alla tutela dei lavoratori e alla promozione di una concorrenza più equa e socialmente responsabile.
Il governo predica l’autonomia differenziata quando gli conviene, ma la combatte quando tocca i diritti sociali. La Toscana ha scelto di rispondere con un esempio concreto: chi dei due sia più bravo a rispettare la legge, lo deciderà la Corte, ma chi dei due stia dalla parte degli italiani, lo giudicheranno i cittadini.
Ivana Zimbone
Direttrice responsabile