La “mano visibile” dei dazi USA e Cina: le superpotenze dimostrano che l’interdipendenza economica è una minaccia

Il protezionismo svela il suo vero volto: non sempre vincono i mercati più efficienti. L'ordine liberale è finito.

Adv

Dazi USA Cina

Con i dazi di USA e Cina la “mano invisibile” di Adam Smith ha tolto ogni velo e si è palesata al mondo. L’economista scozzese riteneva che regolasse il mercato guidando domanda e offerta verso l’equilibrio ottimale. Nella sua “Ricchezza delle nazioni” sosteneva che ogni individuo, facendo i propri interessi, fosse inconsapevolmente promotore di quello collettivo: “non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo la cena, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse”, scriveva.

Questa teoria – che fa acqua da tutte le parti – presuppone che i mercati siano liberi da interferenze governative, tanto da consentire la promozione dell’efficienza in una sorta di “concorrenza naturale”. Ma la libertà del mercato è impossibile e l’entrata in scena dei dazi mostra le armi alternative di guerre silenziose. Intanto, a ridosso della scadenza del 9 luglio, Trump firma 12 lettere da spedire a vari Paesi, con tasse da applicare sui beni esportati dagli Stati Uniti. Le tariffe? Dal 10 al 70%, a seconda dei singoli casi.

I dazi e il paradosso dell’auto elettrica

Il protezionismo non aiuta nessun mercato. L’ultima vicenda dei dazi europei sulle auto elettriche cinesi racconta una storia di effetti collaterali imprevisti. Mentre Bruxelles imponeva tariffe fino al 45,3% per proteggere l’industria automobilistica europea, le case cinesi hanno semplicemente cambiato strategia, mostrando la loro flessibilità: nei primi cinque mesi del 2025, le vendite di auto cinesi in Europa sono cresciute dell’80%, con le vetture a benzina e diesel che sono più che raddoppiate.

Un autogol clamoroso. I produttori cinesi hanno messo in circolo veicoli ibridi e a benzina con emissioni di CO2 molto più elevate, compromettendo gli obiettivi di decarbonizzazione europei. Il risultato? Le PMI del settore automotive si trovano a fronteggiare una concorrenza spietata su tutti i fronti, mentre l’emergenza ambientale continua a non essere considerata adeguatamente.

La vera arma della Cina: le terre rare

Dietro le schermaglie sui brandy europei delle ultime ore – con dazi antidumping tra il 27,7% e il 34,9% – e sulle auto elettriche si nasconde la vera arma della Cina: le restrizioni sulle terre rare, visto che Pechino domina il settore con circa il 90% della produzione mondiale. Per le nostre PMI manifatturiere questa è senz’altro la spada di Damocle più pericolosa.

Il 4 aprile scorso, il governo cinese ha introdotto severe restrizioni all’esportazione di sei metalli pesanti appartenenti alle terre rare, tra cui samario, gadolinio, terbio, disprosio, lutezio, scandio e ittrio. Secondo i dati di Clepa, delle oltre cento richieste di licenza di esportazioni presentate alle autorità cinesi dall’inizio di aprile, solo il 25% circa sarebbe stato approvato.

L’impatto sulla filiera europea è significativo. Con una catena di fornitura globale profondamente intrecciata, le restrizioni alle esportazioni della Cina stanno già mettendo a dura prova la produzione dei fornitori europei. Un esempio è quello della tedesca Bmw. E non va meglio nemmeno fuori dall’UE: la giapponese Suzuki Motor ha sospeso la produzione della sua Swift.

Dazi USA e Cina, il fallimento della teoria delle superpotenze

La guerra commerciale in corso segna il definitivo tramonto di un’illusione che ha dominato la politica internazionale negli ultimi trent’anni: l’idea che l’interdipendenza economica avrebbe garantito la pace tra superpotenze, come teorizzato da diversi economisti e politologi alla caduta del Muro di Berlino, convinti che i conflitti sarebbero stati insostenibili e dunque poco convenienti per tutti.

La realtà di oggi racconta una storia diversa. Stati Uniti e Cina, con un commercio bilaterale di 575 miliardi di dollari nel 2023, si stanno scontrando proprio usando come armi le loro interdipendenze commerciali. La “mutua distruzione economica”, nemmeno fosse l’equivalente della deterrenza nucleare, si è rivelata pura fantasia.  

La fine dell’ordine liberale e il paradosso della globalizzazione

L’ordine economico liberale costruito dopo la Seconda guerra mondiale si basava sul principio utopistico che il libero scambio avrebbe reso tutti più ricchi e, di conseguenza, più pacifici. Le istituzioni internazionali come il WTO avrebbero garantito regole comuni, mentre la specializzazione produttiva avrebbe creato catene del valore così interconnesse da rendere impensabili i conflitti.

Di fatto questo sistema ha funzionato finché una superpotenza – gli Stati Uniti – ha mantenuto l’egemonia tecnologica e militare, con partner strategici disposti ad accettare il ruolo di subordinazione. Ma è bastato che alcuni, come la Cina, raggiungessero una certa maturità economica e tecnologica per cominciare a scricchiolare.

La globalizzazione economica ha creato la sua contropartita. Più i Paesi diventano interdipendenti, più emergono vulnerabilità strategiche che possono essere sfruttate come armi. Le terre rare cinesi, i semiconduttori taiwanesi, i software americani sono diventati strumenti di pressione geopolitica potenti come eserciti.

Dazi USA e Cina, le nuove regole del gioco

Con il tramonto dei vecchi modelli, le PMI italiane non devono più soltanto trovare il fornitore più conveniente o il mercato più redditizio, ma devono innanzitutto saper valutare i rischi geopolitici delle loro scelte commerciali e quindi occuparsi della loro sicurezza strategica.

L’Italia nel 2024 ha registrato un avanzo commerciale con gli Stati Uniti di 38,9 miliardi di euro, mentre con la Cina un disavanzo di 34,3 miliardi, perché da quest’ultima ha importato più prodotti di quanti ne abbia esportati. Ma la Cina resta comunque uno dei principali mercati di destinazione del nostro export, a prescindere dall’uscita dalla Via della Seta e nonostante i conclamati rischi della sua dipendenza.

I media di Pechino sostengono che si sia vicini a un accordo sui dazi alle auto elettriche e che tutto sia in mano alla “volontà politica” di Bruxelles. Ma questa formula diplomatica, a cui siamo ormai abituati, nasconde la complessità di un braccio di ferro dove ogni mossa ha conseguenze a catena. Mentre nell’Ue alcuni Paesi come la Germania temono le ritorsioni cinesi e altri spingono per una linea più dura, le PMI pagano il prezzo dell’incertezza.

Cosa insegnano i dazi USA e Cina all’UE e alle PMI italiane

Questa guerra commerciale e il fallimento della teoria delle superpotenze insegnano la necessità di adottare logiche di friend shoring, perché la riallocazione delle catene del valore può aprire spazi di mercato in comparti ad alto valore aggiunto. E ci insegnano, soprattutto, che l’innovazione tecnologica sia l’unica vera protezione dalle tensioni geopolitiche.

L’UE non può limitarsi a reagire alle mosse altrui, piuttosto dovrebbe acquisire autonomia strategica nelle materie prime, investendo nell’estrazione e nella lavorazione di terre rare in territorio europeo. Il progetto REPowerEU dovrebbe essere esteso, creando riserve strategiche e partnership privilegiate con fornitori alternativi come Australia e Canada. L’Ue dovrebbe, poi, accelerare gli investimenti per le sue gigafactory e sostenere la ricerca su tecnologie alternative, perché la transizione verde non può dipendere certo dalla Cina.

Rispolverare l’accordo con il Mercosur, come ha già fatto la Svizzera, diventa a questo punto determinante, soprattutto se con un monitoraggio che possa evitare il rischio di incremento delle disuguaglianze.

Come l’Italia può fare la differenza

L’Italia può cogliere oggi opportunità interessanti in termini di reindustrializzazione sostenibile. Intanto può utilizzare i fondi del PNRR per attirare investimenti in settori strategici: BYD ha scelto l’Ungheria per la sua fabbrica europea, ma l’Italia può ancora competere per i prossimi investimenti nell’automotive e nelle rinnovabili.

Il Belpaese oggi deve valorizzare la sua posizione geografica, trasformando i porti di Trieste e Genova in valide alternative per le merci asiatiche dirette in Europa centrale, riducendo la dipendenza dai corridoi del Nord Europa. Per le PMI italiane serve inoltre un potenziamento degli strumenti di SACE e SIMEST, così da individuare mercati alternativi.

Autore
Foto dell'autore

Ivana Zimbone

Direttrice responsabile

Direttrice responsabile di Partitaiva.it e della rivista filosofica "Vita Pensata". Giornalista pubblicista, SEO copywriter e consulente di comunicazione, mi sono laureata in Filosofia - con una tesi sul panorama dell'informazione nell'era digitale - e in Filologia moderna. Ho cominciato a muovere i primi passi nel giornalismo nel 2018, lavorando per la carta stampata e l'online. Mi occupo principalmente di inchieste e approfondimenti di economia, impresa, temi sociali e condizione femminile. Nel 2024 ho aperto un blog dedicato alla comunicazione e alle professioni digitali.

Lascia un commento

Continua a leggere

Iscriviti alla Newsletter

Il meglio delle notizie di Partitaiva.it, per ricevere sempre le novità e i consigli su fisco, tasse, lavoro, economia, fintech e molto altro.

Abilita JavaScript nel browser per completare questo modulo.