Chi lavora all’estero oppure percepisce dividendi o interessi da una società straniera non deve pagare le tasse due volte. Lo stesso vale per gli imprenditori e gli autonomi che svolgono la loro attività stabilmente con l’estero. Ecco tutto ciò che c’è da sapere sulla tassazione dei redditi esteri, per non pagare più di quanto dovuto, per evitare di pagare in modo errato e per scongiurare possibili sanzioni.
Indice
- Il principio di tassazione
- Tassazione dei redditi esteri, due metodi a confronto: esenzione vs credito d’imposta
- Cosa si intende per “reddito prodotto all’estero”
- Tassazione redditi esteri in Italia: IRAP esclusa dall’imponibile
- Tassazione dei redditi esteri con ritenuta d’acconto
- Cosa sono le convenzioni contro le doppie imposizioni
Il principio di tassazione
L’Italia, come la maggior parte dei Paesi del mondo, adotta il cosiddetto principio della tassazione mondiale. Questo, in parole molto semplici, significa che ogni residente fiscale italiano è obbligato dallo Stato al pagamento delle imposte (IRPEF per le persone fisiche, IRES per le società) su tutti i redditi, indipendentemente da dove siano stati prodotti. Dei redditi complessivi fanno parte, quindi, tutti quelli ipoteticamente prodotti in città italiane come Milano o estere come New York.
In quest’ultimo caso, però, sorge un problema evidente. Anche lo Stato estero, dove si ha effettivamente prodotto il reddito, vorrà la sua fetta della torta, tassando quel guadagno. Per fortuna, però, esistono dei meccanismi internazionali per evitare l’ingiustizia della doppia tassazione.
Tassazione dei redditi esteri, due metodi a confronto: esenzione vs credito d’imposta
Esenzione o credito d’imposta sono le possibili soluzioni che gli Stati hanno per eliminare la doppia imposizione, formalizzate nel modello di convenzione OCSE.
Con il metodo dell’esenzione lo Stato di residenza – l’Italia, in questo caso – decide di “ignorare” il reddito prodotto all’estero, esentando completamente dalla tassazione. È un metodo semplice, ma applicato raramente dal nostro ordinamento.
Con il metodo del credito di imposta lo Stato di residenza tassa il reddito estero, ma permette al contribuente di “scontare” dalle proprie imposte una somma pari a quella già pagata all’estero.
L’Italia ha scelto la seconda via, adottando il credito d’imposta per i redditi esteri, disciplinato dall’articolo 165 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR). Questo è lo strumento principale a disposizione di persone fisiche e società per non pagare le tasse due volte. L’unica eccezione di rilievo riguarda i redditi prodotti da stabili organizzazioni all’estero, per le quali è possibile, su opzione, scegliere il metodo dell’esenzione.
Come funziona il credito d’imposta per la tassazione dei redditi esteri
Per poter beneficiare di questo “sconto” fiscale, devono verificarsi tre condizioni indispensabili, come chiarito anche dall’Agenzia delle Entrate:
- produzione di un reddito all’estero;
- concorso alla formazione del reddito complessivo attraverso l’inserimento in dichiarazione dei redditi;
- pagamento di imposte a titolo definitivo all’estero. Non rilevano gli acconti rimborsabili.
Per fare un esempio, si immagini un professionista residente in Italia che abbia guadagnato 10.000 euro da una consulenza svolta in Francia e che venga tassato nel luogo di svolgimento della consulenza. La Francia tasserebbe questo reddito con un’imposta di 1.500 euro. In Italia, quel reddito di 10.000 euro genererebbe un’imposta IRPEF che, per convenzione, supponiamo sia di 2.500 euro.
Grazie al credito d’imposta, il professionista potrebbe detrarre i 1.500 euro già pagati in Francia dai 2.500 euro dovuti in Italia. Il versamento dovuto al Fisco italiano sarebbe solo per la differenza, di 1.000 euro.
La regola dell’aliquota più alta
Il meccanismo ha un limite. Il credito non può mai superare la quota di imposta italiana relativa a quel reddito estero. Tornando all’esempio, se in Francia il professionista avesse pagato 3.000 euro, in Italia il credito sarebbe comunque limitato a 2.500 euro, perdendo i 500 euro di imposta pagata all’estero. La regola vuole, dunque, che si paghi sempre l’aliquota più alta tra quella dei due Paesi.
Cosa si intende per “reddito prodotto all’estero”
Affinché il reddito dia diritto al credito, occorre che questo sia prodotto all’estero. L’art. 165, comma 2, del TUIR utilizza un criterio semplice: assume le regole che l’Italia utilizza per tassare i non residenti e le applica ai residenti.
Il redditi di impresa si considerano prodotti all’estero solo se derivano da attività svolte tramite una stabile organizzazione all’estero. Una “stabile organizzazione” è una sede fissa di affari (un ufficio, una fabbrica, una filiale) attraverso cui l’impresa residente esercita la sua attività in un altro Stato.
Gli altri redditi, invece, seguono logiche diverse e specifiche per ogni categoria:
- i redditi immobiliari seguono il luogo dove si trova l’immobile;
- il reddito da lavoro dipendente autonomo o artistico il luogo dove viene fisicamente svolta l’attività (interessante la declinazione sulla tassazione dei soggetti in smart working);
- i redditi da capitale per interessi e dividendi sono prodotti nello Stato di residenza del soggetto che paga tali proventi.
Ogni regola ha le sue eccezioni e se un’impresa italiana, pur non avendo una stabile organizzazione in uno Stato estero, percepisce da quel Paese interessi o royalties, e viene tassata lì, ha comunque diritto al credito d’imposta in Italia. Questo perché, anche se per l’impresa tutto è considerato reddito d’impresa, quel singolo provento viene visto in modo autonomo e riconosciuto come di fonte estera (circolare 9/E/2015).
Tassazione redditi esteri in Italia: IRAP esclusa dall’imponibile
Se per IRPEF e IRES l’Italia tassa l’intero e poi fornisce un credito, per l’IRAP (Imposta Regionale sulle Attività Produttive) il sistema è completamente diverso e, per certi versi, più semplice.
Ai fini IRAP, l’Italia adotta un principio territoriale su base regionale. Ciò significa che la quota del valore della produzione generata all’estero tramite una stabile organizzazione viene semplicemente esclusa dalla base imponibile italiana. In pratica, non viene tassata affatto in Italia. Non c’è un credito, ma una vera e propria deduzione della parte di valore aggiunto di produzione estera.
Per poter beneficiare di questa esclusione, è necessario che l’impresa abbia una vera e propria stabile organizzazione all’estero, non un semplice ufficio di rappresentanza.
Tassazione dei redditi esteri con ritenuta d’acconto
Un aspetto pratico che genera spesso confusione riguarda le ritenute d’acconto. Cosa succede quando i pagamenti avvengono tra un’azienda italiana e la sua stessa filiale estera?
Se un cliente italiano deve pagare, ad esempio, degli interessi alla filiale estera di una banca italiana, deve applicare la ritenuta? La risposta, di norma, è no. La stabile organizzazione estera non è un’entità giuridica separata dalla “casa madre” italiana. Fiscalmente, è come se il pagamento fosse fatto direttamente alla casa madre residente, che, percependo il reddito nell’esercizio d’impresa, non subisce la ritenuta.
Se è la filiale estera di un’impresa italiana a pagare interessi, canoni o compensi a un soggetto terzo estero, deve applicare le ritenute italiane? Anche qui, la risposta è no. La prassi consolidata, e confermata indirettamente da diverse norme, considera la stabile organizzazione estera come un’entità non residente ai fini degli obblighi di sostituzione d’imposta. Sarà quindi soggetta alle leggi fiscali e agli obblighi di ritenuta dello Stato in cui si trova, evitando una sovrapposizione di adempimenti.
Cosa sono le convenzioni contro le doppie imposizioni
Le convenzioni contro le doppie imposizioni sono trattati internazionali di natura fiscale, la cui funzione è dirimere i conflitti giuridici che emergono quando due diverse sovranità statali reclamano la propria potestà impositiva sul medesimo presupposto. In assenza di tali strumenti l’interazione tra ordinamenti fiscali nazionali può generare un grave ostacolo ai flussi di capitale e di lavoro.
Operativamente, una convenzione stabilisce criteri oggettivi e regole di ripartizione della materia imponibile, con il diritto di tassare in via esclusiva a uno dei due Stati contraenti (quello della fonte o quello della residenza) oppure, più frequentemente, prevedendo una tassazione concorrente, imponendo contestualmente allo Stato di residenza del contribuente l’obbligo di adottare meccanismi idonei a eliminare la doppia imposizione, quali il credito d’imposta o l’esenzione.
In primo luogo, le convenzioni garantiscono la certezza del diritto e la stabilità del contesto fiscale internazionale, elementi imprescindibili per gli operatori economici che intendono pianificare investimenti transfrontalieri. Il secondo beneficio – diretto e fondamentale – è la neutralizzazione della doppia imposizione giuridica, che assicura che il carico fiscale globale non assuma carattere espropriativo.
Oltre a ciò, le convenzioni spesso comportano un concreto beneficio fiscale attraverso la limitazione delle aliquote di ritenuta alla fonte applicabili su flussi di reddito come dividendi, interessi e royalties, consentendo un’ottimizzazione del carico fiscale complessivo.
Giovanni Emmi
Dottore Commercialista