Il fantasma dei referendum 2025, il silenzio in Rai e le confessioni di La Russa: perché si boicotta il voto dell’8 e 9 giugno

Lavoro e cittadinanza, due temi che coinvolgono direttamente gli italiani e sui quali ci si potrà pronunciare nei prossimi giorni, in occasione dei referendum. Peccato, però, che i partiti di governo orchestrino una strategia antidemocratica che ha radici antiche e che allontana i cittadini dalle urne. Persino l'Agcom richiama la Rai per la scarsa copertura informativa sui referendum. Ma di cosa si ha paura?

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referendum 2025

I principali partiti di governo fanno campagne di astensionismo in vista dei referendum dell’8 e del 9 giugno. Dopo l’invito esplicito del ministro degli Esteri Antonio Tajani, arrivano  le pesanti dichiarazioni del presidente del Senato, Ignazio La Russa, che rappresenta la seconda carica dello Stato: “Di una cosa sono sicuro: farò propaganda affinché la gente se ne stia a casa”, ha detto durante una manifestazione pubblica. È eticamente corretto boicottare la partecipazione? Montano le polemiche, ma l’espediente non è nuovo, né a destra né a sinistra.

Il referendum come strumento di democrazia

La democrazia – etimologicamente “governo del popolo” –  è una forma di governo in cui i cittadini esercitano la loro sovranità direttamente o indirettamente, ricorrendo a strumenti di consultazione popolare. Di questi il referendum ne è la rappresentazione massima, perché consente alla cittadinanza di intervenire in maniera diretta sull’ordinamento giuridico. Così, in occasione dei referendum dell’8 e del 9 giugno, gli italiani saranno chiamati a esprimersi su quattro quesiti sul lavoro e uno sulla cittadinanza.

Affinché il referendum abrogativo sia valido, però, è importante raggiungere il quorum, ovvero che si presentino alle urne almeno la metà più uno degli elettori, ovvero circa 25 milioni di persone. Chi ha a cuore le sorti della nostra democrazia, messa in ginocchio a causa della scarsa affluenza alle urne, dovrebbe incentivare la partecipazione, indipendentemente dalle opinioni. Sarebbe utile pure abbassare il quorum e introdurre il voto da remoto, eppure ciclicamente c’è chi rema contro la partecipazione.

L’astensionismo conviene a tutti

Alle scorse elezioni europee la premier Giorgia Meloni si è – giustamente – impegnata attivamente per promuovere l’affluenza alle urne. Lo stesso hanno fatto gli altri partiti, perché alle elezioni politiche conviene a tutti: lì vince chi ottiene più voti, indipendentemente dal numero di partecipanti. Nel caso dei referendum abrogativi, invece, le regole sono diverse: il sì vince solo se si raggiunge il quorum; in assenza di questo, non importano i giudizi espressi.

Con questo sistema, se un partito politico è contrario al referendum può spingere le persone a votare “no”, oppure spingerle a non votare proprio. Facendo un banale calcolo di probabilità, la seconda opzione è quella più conveniente. Hanno scelto questa strada Bettino Craxi, Umberto Bossi, Silvio Berlusconi, persino Francesco Rutelli e Piero Fassino.

Le posizioni paradossali dei Mattei e il fantasma dei referendum

A percorrere la stessa via, oggi, sono pure coloro che in passato si erano detti contrari. Un esempio? Quello del vicepremier leghista e ministro dei Trasporti, Matteo Salvini, che nel 2022 aveva definito “ladri di democrazia” coloro che invitavano all’astensionismo in occasione del referendum sulla giustizia. Oggi invece dichiara che l’8 e il 9 giugno andrà al mare con la famiglia e Tajani.

Ma c’è di più, perché l’attuale Governo ha scelto la disinformazione dei cittadini, preferendo  non parlare dei referendum e riducendo così, a monte, l’opportunità di partecipazione. L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha adottato un provvedimento di richiamo alla Rai e a tutti i fornitori di servizi di media audiovisivi e radiofonici affinché garantiscano adeguata copertura informativa sull’argomento, perché pare che solo l’1% di Tg e tv talk ne abbia parlato.

Per protesta, un centro sociale ha occupato a Milano l’atrio della Rai e il deputato Riccardo Magi – di +Europa – è entrato alla Camera vestito da fantasma: “Si ricorda presidente Meloni, quando accusava i governi di silenziare i referendum, di sfavorire la partecipazione? Se lo ricorda? – ha chiesto mentre veniva portato via dopo l’espulsione – Era il 2016 e il 2022”.

Una mossa che non è piaciuta nemmeno dal leader di Italia Viva, Matteo Renzi, che su X ha commentato così: “Quella di Magi è una pagliacciata che non serviva. La Meloni viene raramente in parlamento. Una volta che accetta, va sfidata sui contenuti come hanno fatto molto bene Boschi e Schlein oggi. Perché quando stai sui contenuti, lei balbetta e non sa che dire. Vestirsi da fantasma è l’ennesimo regalo alla premier: toglie visibilità ai contenuti seri e regala facile propaganda alla destra”. Da quale pulpito viene la predica?

I 5 quesiti dei referendum dell’8 e 9 giugno

A dirla tutta, pure Matteo Renzi regala facile propaganda alla destra. Basti pensare che, su cinque quesiti, due riguardino l’abrogazione di novità sul lavoro introdotte dal “suo” Jobs Act nel 2015. Un argomento più volte utilizzato dalla premier per rispondere alle critiche.

Il compito dei giornalisti è quello di contribuire a un’opinione pubblica informata e consapevole. Per questo, in barba ai tentativi di boicottaggio dei referendum e alla crescente sfiducia nei confronti della categoria, ci sono tanti giornali cartacei e online che, come il nostro, parlano dei referendum. Così facciamo ancora oggi.

Primo quesito sul lavoro

La legge non è uguale per tutti. In Italia, se sei stato assunto/a prima del 7 marzo 2015 e licenziato/a ingiustamente – come accertato da un giudice – da un’azienda con più di 15 dipendenti, hai il diritto al reintegro nel luogo di lavoro. Se però l’assunzione risale a un periodo successivo, puoi rimanere a casa. A stabilirlo è la disciplina sui licenziamenti del contratto a tutele crescenti del Jobs Act, che il primo quesito vuole abolire.

Al momento è previsto un indennizzo economico tra le 6 e le 36 mensilità di stipendio, ma se la norma attuale venisse abrogata, si tornerebbe a quanto previsto dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, con le modifiche apportate dalle legge Fornero del 2012: oltre al risarcimento economico, alcuni lavoratori licenziati ingiustamente avrebbero diritto al reintegro.

Secondo quesito sul lavoro

Il secondo quesito sul lavoro chiede di eliminare il limite all’indennità per i lavoratori licenziati in modo ingiustificato nelle piccole aziende con meno di 15 dipendenti. Al momento, in caso di licenziamento illegittimo si può ricevere un’indennità massima pari a sei mesi di stipendio.

Se le cose cambiassero, l’indennità verrebbe stabilita caso per caso da un giudice, in funzione della gravità della violazione, dell’età, dei carichi di famiglia, della capacità economica dell’impresa. Una scelta indispensabile per il rispetto del principio di equità.

Il terzo quesito sul lavoro

Il terzo quesito sul lavoro vuole abrogare alcune norme sull’uso dei contratti a tempo determinato previsti, ancora una volta, dal Jobs Act. Oggi questi contratti possono essere stipulati fino a 12 mesi, senza che un datore di lavoro debba indicarne la ragione, a sua scelta insindacabile anche in eventuale giudizio. Se le regole attuali venissero cancellate, questi contratti verrebbero limitati, con l’obbligo per il datore di lavoro di inserire la causale per cui non sceglie un contratto a tempo indeterminato.

Il quarto quesito sul lavoro

Il quarto quesito sul lavoro punta ad attribuire maggiori responsabilità all’imprenditore committente in caso di infortuni o malattie professionali. Al momento il datore di lavoro committente è responsabile in solido con appaltatore e subappaltatore per i lavoratori privi di copertura assicurativa, a patto che i danni non siano causati da rischi specifici dell’attività di appaltatore e subappaltatore. Con l’eliminazione di questa clausola, la responsabilità del committente verrebbe estesa, impedendo che quest’ultimo possa utilizzare appalti e subappalti come “espedienti” per limitare la responsabilità dell’impresa e incentivandolo a promuovere la sicurezza sul lavoro.

Il quinto quesito è sulla cittadinanza italiana

Se non lo ius soli e non lo ius scolae, possono almeno bastare cinque anni di residenza regolare, la conoscenza della lingua italiana, il reddito stabile, il pagamento regolare delle tasse e l’assenza di reati per dirsi cittadini italiani? Secondo chi ha proposto il referendum, sì. Ma secondo le norme attuali di anni ne servono dieci, che si allungano spesso di po’ a causa della burocrazia.

Come diceva Seneca, “è nella natura del potere temere chi non lo teme”. Ecco perché invitano all’astensione: un popolo che si presenta alle urne è l’incubo di ogni governo che preferisce sudditi silenziosi piuttosto che cittadini consapevoli. Buon voto a tutte e a tutti.

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Ivana Zimbone

Direttrice responsabile

Direttrice responsabile di Partitaiva.it e della rivista filosofica "Vita Pensata". Giornalista pubblicista, SEO copywriter e consulente di comunicazione, mi sono laureata in Filosofia - con una tesi sul panorama dell'informazione nell'era digitale - e in Filologia moderna. Ho cominciato a muovere i primi passi nel giornalismo nel 2018, lavorando per la carta stampata e l'online. Mi occupo principalmente di inchieste e approfondimenti di economia, impresa, temi sociali e condizione femminile. Nel 2024 ho aperto un blog dedicato alla comunicazione e alle professioni digitali.

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