Non bastavano le pesanti ricadute sulle imprese nostrane e sulla loro capacità di esportare l’eccellenza italiana. E nemmeno quelle, altrettanto gravose, sui consumatori americani, costretti ad acquistare la pasta made in Italy con un super dazio del 107%. Gli effetti dei dazi USA in Italia continuano a far vacillare anche il più stoico degli ottimisti, diffondendo caos e innescando meccanismi pericolosissimi che alla lunga rischiano di investire le stesse multinazionali americane localizzate nello Stivale. L’export è sempre più a rischio, come dimostrano i dati Svimez.
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Effetti dazi USA in Italia, cos’è il reshoring e perché il Belpaese trema
Si chiama reshoring, ovvero quel fenomeno per cui, a causa degli effetti dei dazi Usa, le attività produttive a controllo estero che operano sul territorio italiano finiscono per non trovare più conveniente il fatto di svolgere la propria attività in Italia e decidono quindi di fare le valigie e tornare in patria.
Cosa cambia con i dazi USA? La cosiddetta “guerra dei dazi” avviata dall’amministrazione statunitense non si limita a introdurre barriere commerciali per ridurre la dipendenza americana dalle importazioni. Le politiche protezionistiche statunitensi si pongono anche un altro obiettivo “collaterale”: far sì che per le imprese multinazionali, il fatto di essere localizzate all’estero, in Italia per esempio, si trasformi in uno svantaggio macroscopico. La consapevolezza di questo svantaggio produce a sua volta un automatico e immediato ritiro dall’Italia verso condizioni decisamente più favorevoli e sostenibili.
Svimez traccia i possibili scenari. “L’ipotesi di un ridimensionamento produttivo delle multinazionali statunitensi, o addirittura di un loro rientro negli Stati Uniti – spiega Svimez – potrebbe avere conseguenze strutturali rilevanti anche in Italia: minori volumi di output realizzati sul territorio nazionale, perdite occupazionali e, più in generale, riduzione del potenziale di crescita delle economie locali”. Ma qual è la portata di questi possibili effetti dei dazi USA? È proprio per rispondere a questa domanda che Svimez ha deciso di quantificare il peso delle multinazionali estere, e in particolare di quelle americane, nell’economia delle regioni italiane.
Multinazionali estere, in Italia poche ma rilevanti per addetti e fatturato
C’è un dato di fatto da cui occorre partire. Anche se, da un punto di vista quantitativo, il peso delle imprese multinazionali nel nostro export è limitato (sono l’1,2% del totale), non può dirsi lo stesso se guardiamo ai dati rilevanti relativi a fatturato e addetti. Le imprese multinazionali localizzate in Italia generano il 21% del fatturato e contano il 9,5% degli addetti. Il solito gap Nord-Sud mette in evidenza una maggiore concentrazione delle stesse nelle regioni centro-settentrionali: il Mezzogiorno conta oltre settemila unità, solo il Nord-Ovest quasi tre volte di più.
La distribuzione nelle regioni
Il dato numerico relativo alle unità locali e alla loro distribuzione geografica diventa secondario rispetto al contributo che dalle imprese multinazionali arriva all’export italiano. “Sebbene la presenza di multinazionali estere sia numericamente più rilevante al Nord – spiega Svimez – il Sud si caratterizza per casi di concentrazione settoriale e territoriale in cui il ruolo delle multinazionali è cruciale per la capacità di esportazione”.
Basti guardare alla Sicilia, dove a l’export delle multinazionali estere rappresenta quasi il 60% del totale dell’export regionale, in Basilicata il 52%, in Molise il 43% e in Abruzzo il 41%. Viceversa, in Sardegna (18%) e Calabria (14%) il peso è modesto. Con riferimento al solo manifatturiero, le multinazionali estere contribuiscono per il 30% del totale delle esportazioni italiane di settore (oltre 150 miliardi di euro su 496). Se si estende l’analisi a tutti i settori, la quota sale a oltre il 33% dell’export nazionale.
Effetti dazi Usa e reshoring: a rischio il 22% dell’export italiano ovvero circa 110 miliardi
Le multinazionali americane sono le prime, tra quelle straniere, in termini di addetti: 350 mila su circa un milione e mezzo (pari a circa il 22%). Secondo quanto riporta Svimez nella sua analisi, gli Stati Uniti risultano i primi investitori in due settori: manifattura (110.911 addetti) e altri servizi (181.506).
Esse, inoltre, incidono per il 17,9% sul fatturato delle imprese a controllo estero, collocandosi al secondo posto dopo quelle francesi (19,4%). Detengono invece il primato in termini di valore aggiunto (21,1%). Se ci si concentra sul solo comparto manifatturiero, risultano prime per incidenza sul valore aggiunto e sul fatturato.
“A fronte di poco più di 200 miliardi di euro di esportazioni complessivamente realizzate dalle multinazionali estere – si legge nell’analisi – circa 43 miliardi provengono da imprese statunitensi, pari a quasi il 22% del totale. La distribuzione territoriale di questo export evidenzia una forte concentrazione in Lombardia, Piemonte, Emilia-Romagna e Lazio, che insieme raccolgono circa due terzi del totale nazionale”.
Se guardiamo all’incidenza percentuale delle esportazioni americane sull’export delle singole regioni, colpisce il dato della Basilicata (24,8%). Un peso che, invece, diventa irrilevante in altre regioni del Sud come la Sicilia e la Calabria (0%).
Per il vicedirettore e curatore del Report, Stefano Prezioso “Il lavoro conferma il peso rilevante delle multinazionali straniere all’interno del nostro export”. Quali sono le conseguenze dei dazi? “È evidente che qualora i dazi imposti dal governo americano durino nel tempo, le multinazionali statunitensi operanti nel nostro Paese potrebbero essere tentate di riportare la produzione a casa. La perdita di questa produzione potrebbe dar luogo a un danno, per l’economia italiana, ampio, probabilmente maggiore di quello che deriva dai soli dazi. La risposta a questo pericolo da parte dell’Europa finora è debole, concentrandosi esclusivamente sulle problematiche dei dazi”, conclude.










Patrizia Penna
Giornalista professionista