Meno del 10% dei destinatari del concordato preventivo biennale 2023-2024 ha aderito, ma il flop non è bastato per un cambio d’approccio. Il nuovo concordato preventivo biennale 2025-2026 – a cui è possibile aderire fino al 30 settembre – è ancora più ostico e meno appetibile della versione precedente. Per essere “lasciati in pace” dal Fisco, senza sprecare tempo e denaro per verifiche e dimostrazioni varie, pagare le tasse non basta.
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Concordato preventivo biennale 2025-2026, le regole
Il concordato preventivo biennale (CPB) nasce grazie alla legge n. 111 del 2023 e con il decreto legislativo n. 13 del 12 febbraio 2024. Si tratta di un accordo tra il contribuente e l’Agenzia delle Entrate sul reddito presunto e l’imposta da versare per due anni. Lo strumento è disponibile soltanto per i soggetti a cui si applicano gli ISA (Indici Sintetici di Affidabilità fiscale). Restano esclusi i forfettari, le imprese che hanno di recente cambiato compagine sociale, chi ha debiti tributari o contributivi superiori a 5 mila euro.
L’accordo si basa su una proposta che l’Agenzia delle Entrate elabora attraverso algoritmi complessi e dati storici del contribuente. In caso di accettazione, alcuni vantaggi: un’imposta sostitutiva sul maggior reddito concordato con aliquote agevolate (dal 10% al 15%, in base al punteggio ISA); l’esclusione dagli accertamenti e dagli studi di settore; l’esonero dal visto di conformità fino a 70 mila euro di IVA o 50 mila euro di IRPEF e IRAP.
Un’amicizia senza reciprocità
L’apparente “amicizia” del Fisco, però, si ferma qui. Perché superata la soglia di 85 mila euro di reddito, scatta l’aliquota IRPEF del 43% (o IRES del 24%) sull’eccedenza, a differenza di quanto accadeva nel biennio precedente. Questo significa che per i professionisti con redditi più elevati l’appeal del concordato si riduce in modo sostanziale. Una modifica poco “onesta”, perché in caso di reddito reale inferiore a quello concordato, il contribuente è comunque obbligato – senza alcuna possibilità di revoca, se non in casi del tutto eccezionali – a dichiarare il reddito preventivato e a pagare le tasse promesse.
Il rischio di finire in “black list”
Il Fisco è una nonna “vecchio stampo” che dice al nipote: “O mangi questa minestra, o salti giù dalla finestra”. Il comma 2 dell’articolo 34 del decreto legislativo 13/2024, infatti, suona come una minaccia: “L’Agenzia delle Entrate e il corpo della Guardia di finanza programmano l’impiego di maggiore capacità operativa per intensificare l’attività di controllo nei confronti dei soggetti che non aderiscono al concordato preventivo biennale o ne decadono”. Così chi rifiuta l’accordo, nonostante l’Agenzia garantisca il contrario, avrà sempre il timore di non essere più considerato un contribuente in buona fede.
La volatilità economica è nemica del concordato
La principale paura espressa dalle partite IVA è legata alla volatilità economica. Accettare un reddito presunto per due anni significa vincolarsi a un impegno fiscale in un’economia che non offre certezze. I dati macroeconomici supportano questa preoccupazione. Secondo le previsioni Istat, il PIL italiano è atteso in crescita dello 0,6% nel 2025 e dello 0,8% nel 2026. E ci sono pure stime al ribasso, tutti numeri che descrivono un’economia sostanzialmente ferma, ben lontana dalle performance necessarie per garantire stabilità reddituale, soprattutto alla luce dei possibili nuovi rincari sulle materie prime. C’è pure da considerare, poi, che il reddito preventivato dall’Agenzia è il risultato di studi di settore e stime generiche che difficilmente riflettono le reali capacità e specificità delle singole imprese.
Le complicazioni del concordato 2025-2026: l’effetto domino
Il decreto correttivo ha introdotto regole ancora più stringenti per i professionisti. Se un professionista partecipante a una società tra professionisti o associazione non aderisce, la società decade dal CPB. Viceversa, se è la società o l’associazione a non aderire, decade il concordato del singolo professionista. Questa regola crea un effetto domino che può compromettere intere strutture professionali, aumentando la complessità gestionale e i rischi per chi vuole aderire.
L’alternativa che non è mai arrivata: cosa serviva davvero alle partite IVA
Mentre il Governo proponeva il concordato, le partite IVA continuavano a chiedere una vera e propria riforma che semplificasse loro la vita e riducesse il carico fiscale. L’Italia è terza nell’OCSE per pressione fiscale, con il 42,8% del PIL, un dato che rimane stabile ma drammaticamente superiore alla media del 33,9%. Solo Francia (43,8%) e Danimarca (43,4%) hanno una pressione fiscale superiore.
Nonostante la promessa di una “cassetta degli attrezzi” digitale, gli adempimenti fiscali restano frammentati: fatturazione elettronica, spesometro, certificazioni uniche, dichiarazioni IVA. Il concordato, invece di snellire il processo, aggiunge un’ulteriore complicazione: la necessità di valutarne la convenienza e di assumersi ulteriori rischi a lungo termine. Come se i rischi imprenditoriali o quelli legati alla libera professione non fossero già abbastanza.
Nessun cambio di prospettiva è possibile nel rapporto tra Fisco e contribuenti senza negoziazione né contraddittorio: la proposta dell’Agenzia è un contratto “per adesione” in cui una parte detta le condizioni e l’altra, che per esserci deve far parte di quella minoranza che paga correttamente le tasse, può solo accettare o rifiutare. Senza premiare gli onesti, il sistema di controllo diventa unidirezionale e controproducente, tanto per chi fa impresa, quanto per lo Stato. Perché come si vuole spiegare ogni volta che si tratta di riabilitare gli evasori, meglio incassi inferiori, ma certi.
Ivana Zimbone
Direttrice responsabile