Università o lavoro dopo il diploma? Opportunità e guadagni di laureati, non laureati e studenti lavoratori

La scelta non è poi così scontata. Il 45% dei diplomati non sa cosa fare dopo il diploma.

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lavoro o università dopo il diploma

Cosa fare dopo il diploma? Meglio lavorare, iscriversi all’università o conciliare le due cose? La Generazione Z affronta oggi un mercato del lavoro completamente diverso rispetto a quello dei genitori: specializzazione e competenze sono requisiti essenziali d’accesso, ma, accanto ai titoli, è importante maturare l’esperienza necessaria in grado di garantire risultati alle imprese e o ai propri clienti. Partitaiva.it, attraverso dati statistici e casi reali, ha analizzato il guadagno potenziale di laureati e non laureati, le opportunità di conciliazione studio-lavoro e le prospettive di crescita di chi decide di aprire partita IVA a diciotto anni.

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Università o lavoro subito dopo il diploma? Le scelte della Gen Z

Se è vero, e i dati relativi alle nuove aperture di partita IVA tra i giovani under 25 lo dimostrano, che tanti diciottenni di oggi preferiscono buttarsi a capofitto nel mondo del lavoro, rinunciando alla formazione accademica dopo il diploma, quali sono i fattori reali alla base di questa scelta? 

Il guadagno conta, certo. Ma alla base c’è anche un dubbio più profondo. Una recente ricerca di Skuola.net e ELIS condotta su un campione di 3 mila studenti delle scuole superiori, mette in evidenza come ben il 45% non ha idea di cosa fare dopo il diploma, se frequentare l’università o iniziare a cercare lavoro. Ma intanto la maggior parte di loro si iscrive a una facoltà, soprattutto tra i liceali. Sono circa 7 giovani su 10 ovvero il 71,4% dei diplomati che nel 2023 ha deciso di proseguire gli studi, con il 49,6% dedicato esclusivamente all’università e il 21,8% che combina studio e lavoro. Solo il 18,2% entra subito nel mercato del lavoro, senza iscriversi all’università.

La Gen Z dunque non abbandona l’università. Tuttavia, cresce la quota di chi vuole indipendenza economica subito: quasi 1 su 5 lavora dopo il diploma e quasi 1 su 6 prova a conciliare studio e lavoro. La laurea resta centrale per molte professioni, ma il valore delle competenze pratiche e l’attrattiva di entrare subito nel mercato del lavoro stanno spingendo parte della Gen Z a rivalutare il solo diploma.

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Cosa fare dopo il diploma? Studiare e lavorare spesso è una necessità

La condizione dello studente lavoratore universitario in Italia è complessa: riguarda quasi 1 su 6 iscritti e comporta spesso subire condizioni precarie, con impatti sostenuti sulla carriera accademica. Il lavoro è principalmente motivato da necessità economiche più che da scelte strategiche e per molti si traduce in difficoltà gestionali e psicologiche significative.

Secondo questa indagine di Unione universitari, in Italia sono circa 365.000 gli studenti che lavorano durante l’università, equivalenti al 17% degli iscritti totali. Tra questi, circa 242.000 sono under 30, cioè il 13% degli studenti nella stessa fascia d’età.

Il lavoro è più una necessità che una scelta volontaria: è motivato principalmente da esigenze economiche, come mettere soldi da parte (90%), ottenere indipendenza (88%) e finanziarsi gli studi (83–82%). Le difficoltà legate alla doppia vita da studente e lavoratore sono significative: il 65% riferisce problemi nel socializzare, il 61% fatica a seguire le lezioni, il 56% a sostenere regolarmente esami e il 54% a studiare. Per questo target, il rischio di finire fuori corso cresce a dismisura.

Infatti, secondo una ricerca riportata dalla Repubblica degli Stagisti, gli studenti che lavorano durante il percorso universitario impiegano molto più tempo per completare il percorso di studi rispetto ai colleghi che studiano a tempo pieno. La laurea viene conseguita mediamente dopo più di sei anni, con un’età media intorno ai 34 anni. Solo il 29,7% degli studenti lavoratori riesce a conseguire il titolo entro i tempi previsti, mentre il 24% circa si laurea dopo il quinto anno. Il 46% degli universitari lavoratori ha un contratto precario, con mansioni prevalentemente a bassa specializzazione: 30,5% nei servizi commerciali (commessi, camerieri) e gli altri a livello impiegatizio, socio-sanitario, tecnico oppure operaio.

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Laureati e diplomati: chi guadagna di più?

Stando ai dati nazionali raccolti da Almalaurea nel report 2024, il potenziale di guadagno e di crescita che hanno i giovani che frequentano con successo l’università e lavorano solo dopo il conseguimento del titolo è più elevato rispetto a quello dei diplomati che si inseriscono subito nel mercato del lavoro come dipendenti. 

A 5 anni dalla laurea, i giovani laureati italiani hanno una retribuzione netta mensile media di circa 1.800 euro. I diplomati, nello stesso arco temporale, si fermano attorno a 1.300 euro netti al mese. Il vantaggio salariale della laurea è quindi di circa +500 euro al mese, pari a +35–40% in più. Il tasso di occupazione a 5 anni dalla laurea si attesta all’89% e quello dei diplomati, a 5 anni dal titolo, è di circa il 78%. I laureati hanno anche maggiori probabilità di avere contratti stabili – come il tempo indeterminato – e di raggiungere ruoli di responsabilità.

Non tutti i percorsi di studio accademico garantiscono le stesse opportunità. I guadagni dei laureati differiscono a seconda dell’ambito lavorativo, garantendo in media 2.000-2.200 euro netti al mese per l’area Stem, fino a 2.500 euro netti al mese per le professioni sanitarie già dopo pochi anni, per ridursi a 1.700-1.900 euro per i laureati di giurisprudenza ed economia e a 1.400-1.500 euro per lettere e filosofia, come per scienze sociali.

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Lavoro autonomo dopo il diploma: aprire partita IVA a 18 anni

C’è una terza strada possibile per i neo-diplomati, oltre all’iscrizione all’università e al lavoro da dipendente. Sempre più giovani, infatti, valutano soluzioni alternative come la formazione tecnica, i corsi professionalizzanti, le esperienze all’estero e, non da ultimo, l’apertura di una partita IVA per iniziare da subito un percorso da freelance.

La testimonianza di Gabriele Verona, diciottenne che ha scelto di lavorare come sviluppatore web indipendente ancora prima di diplomarsi, è un esempio di come la voglia di autonomia e la fiducia nelle proprie competenze possano spingere verso scelte non convenzionali. “Ho capito che avrei lavorato in autonomia già dai primi anni di frequentazione del liceo – racconta -. Le esperienze in un campo estivo sono state utili per comprendere che non condividevo nulla di quell’impostazione del lavoro, né a livello organizzativo né per quanto riguarda le regole da seguire. A 16 anni avevo già chiaro di voler fare il freelance e i miei genitori, dopo un primo momento di perplessità, hanno deciso di sostenere la mia scelta”.

I programmi scolastici e la formazione autonoma

Gabriele ha cominciato a lavorare per conto proprio, imparando da autodidatta nonostante frequentasse un istituto informatico. “I programmi scolastici sono gli stessi di 20 anni fa e, in un settore come il nostro, ci si aggiorna ogni settimana. Ho fatto tutto da solo, lavorando sul campo ogni giorno e seguendo video formativi su YouTube”, continua.

La sua giornata tipo si divide tra il lavoro di marketing, le sponsorizzazioni per le aziende, la realizzazione di siti web e i servizi di formazione che offre a ragazzi che, come lui, vogliono un’attività da freelance partendo da zero. “Non mi piace parlare di consulenza, bensì di affiancamento sulla parte commerciale del business, al di là del lavoro che svolgono – spiega -. Li aiuto nelle tecniche di vendita, nell’acquisizione clienti, nella costruzione del personal brand, nella preparazione di un’offerta chiara e strutturata, nella gestione delle call di lavoro”.

Budget di spesa e fatturato iniziale 

Quanto costa avviare un’attività di servizi da freelance? “Nel mio giorno zero, quello in cui sono partito, ho speso 200-300 euro, per coprire costi necessari come il dominio e l’hosting del mio sito – continua Gabriele Verona -. Ma tutto ciò che ho guadagnato nel mio primo anno, l’ho reinvestito. Anche oggi dedico parte del mio fatturato a nuovi investimenti per far crescere l’attività, alla formazione e all’acquisto di strumenti di lavoro”.

A conti fatti, il bilancio è positivo. Dopo soli cinque mesi dall’apertura della partita IVA il giovane sviluppatore web poteva contare su un’entrata media mensile di 1.500 euro. “Ho raggiunto anche i 2.000 euro, ma le oscillazioni negli introiti sono fisiologiche quando hai partita IVA – spiega -. Le prospettive di guadagnano sono buone, ma per coglierle appieno devi essere disposto anche a lavorare nel weekend e a sacrificare un po’ la vita sociale”.

Networking e opportunità di lavoro? “Fuori dalla scuola”

Per lavorare in modo autonomo e avere successo, occorre talvolta prendere scelte indipendenti dal proprio contesto. Così Gabriele Verona non smette di cercare opportunità di business e di formazione, anche al di fuori della scuola. “Attualmente mi trovo in Spagna per quattro mesi, da solo, per seguire un percorso per neo-imprenditori e collaborare con un’azienda – racconta -. Il progetto EYE Erasmus for Young Entrepreneurs, di cui la mia scuola non mi ha mai parlato e che ho trovato sul web, si rivolge a chi ha già avviato un’attività. Un’ottima occasione per fare rete e trovare nuove occasioni di business”. La determinazione del giovane sviluppatore web, tuttavia, è una competenza acquisita nel tempo, grazie all’atletica.

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Esperienze vs titolo di studio: cosa conta davvero nel mercato del lavoro

Le competenze sembrano essere il vero motore della crescita di carriera. Ci sono quelle che si acquisiscono nei percorsi accademici e quelle che, necessariamente, arrivano con l’esperienza sul campo. La laurea ha sempre – o quasi – un peso determinante, soprattutto per quelle professioni per le quali è indispensabile. Ma spesso, da sola, non basta.

Da un recente sondaggio di Indeed, che ha raccolto i pareri di mille lavoratori e 500 selezionatori del personale, emerge che il possesso della laurea compare come requisito nel 42% degli annunci di lavoro, ma che quasi la metà dei datori di lavoro (49%) la giudica subito obsoleta e il 62% critica la poca applicabilità concreta dei programmi universitari.

Il dato più sorprendente, però, riguarda la disponibilità delle aziende a fare a meno del titolo: solo il 26% si direbbe pronto a eliminare del tutto la laurea dalle proprie ricerche di candidati. I laureati stessi vivono un rapporto ambivalente con il proprio percorso di studi: il 73% afferma di aver imparato più durante a lavoro che all’università, ma il 42% riconosce di aver acquisito competenze spendibili sul mercato proprio grazie agli studi. E poi c’è il valore simbolico della laurea: il 40% dei lavoratori ammette che si sentirebbe infastidito se un collega ottenesse lo stesso ruolo senza avere un titolo accademico.

La laurea, dunque, resta un traguardo importante da vantare a livello personale e da spendere sul mercato del lavoro ma, come confermano i dati del LinkedIn Economic Graph, i lavoratori che hanno maturato ulteriori competenze – soprattutto nell’uso dell’AI e competenze interpersonali – trovano lavoro più velocemente. Allo stesso modo, le imprese che scelgono di assumere guardando le competenze, e non soltanto i titoli, hanno il 12% di probabilità in più di assumere personale qualificato e ampliano il bacino di talenti di 7,4 volte sul territorio nazionale.

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Le professioni in cui la laurea resta indispensabile

Esistono settori in cui la laurea rimane un requisito non negoziabile. È il caso delle professioni regolamentate: medici, infermieri, farmacisti, avvocati, notai, ingegneri, architetti e insegnanti devono necessariamente passare attraverso un percorso universitario per ottenere l’abilitazione. 

Ma non si tratta solo di obblighi di legge. In ambiti come l’ingegneria, l’informatica avanzata o la ricerca scientifica, la complessità delle competenze richieste rende difficile, se non impossibile, improvvisare un percorso professionale senza una formazione strutturata. Allo stesso modo, in economia e management, i titoli post-laurea – come master e MBA – continuano a rappresentare una corsia preferenziale per accedere a posizioni di leadership o a carriere internazionali.

Il paradigma, dunque, sta cambiando. Se i titoli restano un passaporto privilegiato per l’accesso a molte carriere, ciò che fa la differenza tra i diversi laureati sono le competenze maturate dentro e fuori dall’università.

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Natalia Piemontese

Giornalista

Giornalista pubblicista, sono laureata con Master in selezione e gestione delle Risorse Umane e specializzata in ricerca attiva del lavoro. Fondatrice dell'Academy di Mamma Che Brand, per l'empowerment femminile e la valorizzazione delle soft skills in particolare dopo la maternità, insegno le competenze digitali che servono per lavorare online.

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